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 2021  settembre 18 Sabato calendario

Biografia di Massimo Bucchi (che compie 80 anni)

«È partito il 18 settembre, di McKanzie non resta più niente», in una delle molte volte che Massimo Bucchi e la sua compagna Paola mi hanno aperto casa loro, nel quartiere romano di Tor Pignattara, facendomi sperimentare un’ospitalità senza pari, il vignettista storico di Repubblica mi ha raccontato che canticchiava alle due figlie, allora piccole, 6-7 anni, si era negli anni 70, la canzone dei Dik Dik che parlava di un astronauta disperso nello spazio. «Piangevano come viti tagliate, perché il 18 settembre sono nato io». Bucchi nasceva infatti a Roma, oggi, ottant’anni fa, molti dei quali dedicati al giornalismo e non solo quelli trascorsi a Repubblica sin dalla sua fondazione, nel 1976. Pochi conoscono gli anni del giovane Bucchi, poco più che ventenne, all’Avanti, organo del Partito socialista (nel 2021 giova ricordarlo), dove fece “l’abusivo”, come si diceva allora, in attesa del praticantato.
Bucchi stazionò in cronaca, poi saltò in cultura, con Pietro Buttitta, «ma lì, onestamente, il mio lavoro fu contare le battute degli articoli e buttare là un’impaginazione che tenesse insieme i pezzi più profondi e le foto di Maria Grazia Buccella, giovane grazia che allora andava per la maggiore». Menabò primitivi: «Una cartella di testo occupava, in scala, anche dieci centimetri. Bastava distrarsi un attimo e mezzo articolo di Giorgio Bassani sarebbe stato massacrato in tipografia». Passato alla redazione interni, Bucchi incollava e riscriveva i lanci di agenzia. «Se potevo, davo un taglio umoristico al tutto, cosa non particolarmente gradita in un giornale di partito». Dalla telescrivente, Ansa, Italia e le americane Associated e United Press eruttavano il mondo: «La notte della crisi dei missili a Cuba, aspettai lì davanti la terza guerra mondiale».
Ma fu da cronista politico il suo addio al giornalismo scritto. Accadde quando, seguendo il consiglio comunale in Campidoglio, chiese al giovane collega Francesco Damato, di Momento Sera, chi fosse quel tale Aldo Bozzi da poco intervenuto e il futuro direttore de Il Giorno gli tirò uno brutto scherzo: «Ma come, Massimo, è il vostro compagno Bozzi». Così vergò in pagina, come socialista, il nome di un liberale doc, destinato, in seguito, a fare anche il presidente del Pli. «Non mi cacciarono, andai via da me tempo dopo. Non era cosa per me».
Segni premonitori: in tipografia, il futuro vignettista si ritrovava: «A volta potevo perfino trasportare sui tavoli i colonnini di piombo composti alla linotype, di scegliere il carattere per un titolo. Non solo, feci perfino delle vignette, in economia o nella cronaca». E che la vignetta, ma soprattutto la battuta, fossero nel suo destino lo rivela questo piccolo dettaglio: dietro al suo tavolo, Bucchi aveva appeso un cliché scontornato de leader socialista, Pietro Nenni, di fatto l’editore, con l’indice teso e, ogni giorno, sotto quel dito, metteva un foglietto con una battuta: «Era realizzata con un montaggio di caratteri, ritagliati da altri giornali. Ha presente le lettere anonime? Nemmeno questo giovò alla mia immagine. Era satira ma ancora non lo sapevo, diciamo».
Così cominciò altrove la sua carriera di grafico e illustratore. In un’agenzia a Roma e poi alla Mondadori, a Verona, dove seguì il fiorentino Bruno Nardini, poeta, piccolo editore, uomo geniale che aveva avuto acquisito come un lampo da Walt Disney i diritti de La natura e le sue meraviglie, un’opera didattica, che spiegava a disegni la bellezza del mondo. Il cavalier Arnoldo Mondadori, che già editava Topolino, glieli riacquistò a condizioni principesche, facendosi anche assumere come mega dirigente con grandi benefit. «Nardini era un caro amico di mio padre e mi volle con lui», dice Bucchi. Sì perché babbo Valentino Bucchi, musicista, compositore, direttore di varie istituzioni musicali fra cui il Conservatorio di Firenze, nel capoluogo toscano era una personalità.
Già prima, negli anni 40 e 50, quando lui e la consorte, entrambi musicisti, suonavano nell’orchestra del Maggio musicale, la loro casa era meta intellettuali: gli scrittori Vasco Pratolini, Carlo Cassola, Romano Bilenchi, il musicologo Augusto Hermett. «E anche Giorgio Spini, che era stato compagno di università di mio padre». Un altro che era legatissimo a Bucchi senior era il poeta e critico letterario Franco Fortini, «forse per riconoscenza, perché mio padre andò davanti a un tribunale fascista a giurare che non era ebreo». Per tornare alla carriera di Bucchi junior, prima di riapprodare alla carta stampata, aveva lavorato ancora nella grafica, per anni in un’agenzia che nell’Italstat, gigante delle partecipazioni statali, forniva manifesti e loghi, progettazione di spazi fieristici a tutto il gruppo. Ne uscì nel 1976, appunto, diretto in Piazza Indipendenza a Roma, ingaggiato per l’innovativa Repubblica che, tra l’altro, aveva chiamato, da Paese Sera, un certo Giorgio Forattini.
Bucchi va a dirigere l’ufficio grafico ma poi, piano piano, la sua vena satirica emerge. La consacrazione è nel 1979 con la direzione di Satyricon, l’inserto satirico «che faceva vendere a Repubblica anche 30-40mila copie in più», mettendo assieme oltre che Bucchi e Forattini, anche Altan, Bevilacqua e molti altri. Giampaolo Pansa mi raccontò una volta, in una delle tante chiacchierate per ItaliaOggi, che a uno dei molti congressi Dc aprì Rep in cui campeggiava una vignetta col segretario Flaminio Piccoli e una battuta da gelo: «Piccoli omicidi». «E sì, non la prese bene», mi ha confermato una volta Bucchi. Come non l’avrebbe presa benissimo, anni dopo, Achille Occhetto, imbufalitosi per una vignetta. «Lo rappresentai nelle vesti di un fotografo, che guardava nell’obiettivo e diceva: ’Restate un attimo di sinistra, per favore’». E un’altra volta, arrabbiatura a sinistra, fu quando scrisse che ’il problema non era stato il crollo del comunismo ma quelli che erano usciti vivi dalle macerie’».
Sempre più sportivi di Licio Gelli, che chiese a Bucchi, e in solido al giornale, cinque miliardi di lire per una vignetta in cui il tragicamente famoso orologio della stazione di Bologna diventava a cucù: solo che l’uccellino che usciva a scandire l’ora della strage del 1980 aveva proprio la faccia del gran maestro. «Solo che finì in un processo in Cassazione e anche la nostra causa si inabissò».
Nessun direttore, giura, gli ha mai fatto storie: Eugenio Scalfari, Ezio Mauro, Mario Calabresi, Carlo Verdelli, Maurizio Molinari non hanno mai battuto ciglio, «forse perché Forattini aveva abituato bene già il fondatore, facendogli spesso trovare la vignetta direttamente in pagina». In questi oltre 40 anni di vignette per Repubblica, Bucchi ha compiuto la sua più grande evoluzione stilistica: accantonata la vignetta tradizionale, è passato all’illustrazione in cui riutilizza, ripensandoli, elementi grafici già pubblicati, magari in vecchie affiches, in ritratti d’epoca, in fotografie. Una vignetta? il paziente che si rivolge allo psicoanalista: «Voglio tornare in me»; l’altro, di rimando: «Speriamo che ci sia posto».
Bucchi è uno che si è schermito abbastanza, nella vita. Cominciò una sera a Firenze, quattrenne, con genitori e nonni, tutti musicisti, come già detto, rifiutandosi di seguirli a teatro: «A costo di saltare la cena, al concerto non vengo». Disse di no, anni dopo, anche all’America, invitato da un ateneo, a Philadelphia, per uno speech di 3 minuti. E resistette a Scalfari, come raccontato dallo stesso fondatore di Repubblica, che lo voleva far approdare in prima pagina: «No, la vignetta non può stare lì. Alla vignetta il lettore deve arrivare dopo aver capito il giornale». Bucchi ha estimatori dappertutto. Lo psicoanalista Giacomo Contri lo chiama «collega», per la sua capacità di scandagliare l’umano, mentre Federico Zeri scrisse una volta: «Bucchi mi fa ridere anche quando disegna una mano». Un altro critico d’arte, Achille Bonito Oliva, saputolo residente in un quartiere ultra-popolare, disse: «A Tor Pignattara? Ma che è diventato snob?».