Pensate a quello che elabora Freud sull’uccisione del padre, ma anche, su un versante più letterario, a cosa scrive Kafka nella sua celebre lettera. È come se ogni volta che questa relazione giunge al dunque – cioè alla scoperta del vero volto del padre – si aprisse un abisso dal quale tentare di sottrarsi. Legame dunque pericoloso che di solito è il figlio a inasprire, a tendere fino allo spasimo. Fino alla tragedia come insegna Edipo o come proverebbe a smentire Telemaco. Tutto questo per dire che sono rimasto colpito dalla vicenda biografica di Paolo Ventura, ottimamente raccontata da Laura Leonelli (Autobiografia di un impostore, edito da Johan & Levi), dove quel rapporto padre figlio riluce in tutta la sua drammatica ferocia. Incontro Paolo al festival Moby Dick (che ogni anno si tiene in provincia di Arezzo) e ho voglia di chiedergli che cosa lo abbia spinto in un’età ancora relativamente giovane (ha 54 anni) a scrivere di sé come se fosse l’ultimo giorno.
Ventura è un grande fotografo che ha lavorato nella moda a Parigi e a Milano e poi – come chiamato a nuova vita – per un quindicennio a New York, ottenendo con i suoi lavori un successo straordinario.
Un padre durissimo dunque con il quale hai provato a fare i conti e un fratello gemello da cui era difficile distinguersi. Ti definisci un impostore. Non sei un po’ troppo severo con te stesso?
«L’impostore è una specie di intruso, di abusivo, un mentitore che si traveste di un ruolo che non gli appartiene. Per molto tempo mi sono sentito prigioniero di questa condizione. Siamo tre figli: Marco il più grande, Andrea e io gemelli indistinguibili. Nostro padre scelse soprattutto me come avversario, nemico da abbattere, vittima predestinata da sacrificare».
Cosa avevi da suscitargli tanto interesse?
«Non lo so, forse ero il solo in famiglia che non sapesse disegnare».
Tuo padre cosa faceva?
«Professionalmente era un illustratore, oltretutto di successo. I suoi libri disegnatissimi hanno venduto milioni di copie in tutto il mondo».
Dei bestseller; ti piacevano?
«Mi facevano schifo. Ho cominciato ad amarli solo dopo che è morto».
Stai descrivendo un uomo molto particolare.
«Che c’è di particolare in uno che passava il tempo a tormentarmi? Però in un certo senso era un’eccezione. Il ruolo paterno non gli si addiceva. Ma vi aveva condensato tutti gli aspetti negativi. Era bugiardo, sadico, prepotente, asociale ed esigeva che noi figli stessimo in perenne adorazione di lui».
Per cosa?
«Per i racconti che imbastiva. Ci parlava delle sue imprese, di quello che era riuscito a fare nella vita. Ci diceva che aveva affrontato con estrema temerarietà le situazioni più difficili, che aveva avuto la meglio sui malviventi, che le sue gesta erano rivestite dal coraggio e che non c’era pericolo nel quale si fosse imbattuto e non avesse superato. Ci parlava del modo in cui aveva spesso sfidato la morte e noi lì ad ascoltarlo. All’inizio, confesso, pensavo fosse un eroe, ma quando capii che alcuni dettagli non quadravano cominciai a pensare che si stesse inventando tutto».
Insomma era un gran bugiardo.
«Un bugiardo patologico che non poteva fare a meno di mentire. Il guaio era che quel mondo di chiacchiere era diventato per me, per noi, una gabbia da cui non era facile evadere».
Quando sei riuscito a liberarti?
«Definitivamente dopo molto tempo. E anni di analisi. Ci fu un episodio che considero il vero punto di distacco. Ero già un fotografo affermato. Lavoravo nella moda, soprattutto a Parigi. Avevo risparmiato parecchi soldi. Poi un giorno mi accorsi che il mio conto era totalmente prosciugato. Era stato mio padre, cui incautamente avevo lasciato la doppia firma, a prelevare tutti i soldi per utilizzarli in una delle sue imprese fallimentari. Si era messo in testa di fondare una casa editrice tutta sua dove pubblicare i suoi libri. Nel giro di un anno o due l’impresa fallì».
Come reagisti?
«Ci fu uno scontro drammatico. Non ero più in me dalla rabbia, lo afferrai per le spalle sbattendolo contro il muro. Vidi improvvisamente un uomo impaurito, fragile, smarrito. Mollai la presa e me ne andai.
Balbettava qualcosa come a giustificare il suo operato.
Non lo ascoltavo e non facevo che ripetermi: perché a me? Perché un padre così è capitato proprio a me?».
Fuori dalle traiettorie paterne com’era la tua vita?
«Abbastanza disastrosa, almeno a scuola. Risultati pessimi, allineati con gli ultimi della classe. Non avevo interessi, tranne quelli familiari. Le storie che la mia nonna mi raccontava della guerra, le zie, due zitelle da cui ogni domenica andavamo a pranzo, riempivano la mia immaginazione. Nella mia mente, quasi inconsapevolmente, si disegnava un mondo che un giorno sarebbe tornato imperioso».
Hai detto che lasciavi Parigi per New York. Perché?
«Cominciare a fotografare, all’età di 13 anni fu il solo gesto di rivalsa che seppi produrre nei riguardi di mio padre. Il quale, con mio grande stupore, mi regalò una Rolleiflex. Francamente non so il perché di quel dono.
Forse voleva misurare il mio ennesimo fallimento o forse intravedeva qualcosa che avrei potuto davvero fare. Ricordo che per scherno certe volte mi chiamava “Avedon”. Uè Avedon, diceva ridendo, vien qui. Lo avrei ucciso. Ad ogni modo fotografavo, poi affinai la tecnica in un paio di laboratori milanesi. A Parigi le mie foto riscossero successo. Piacevano. Ma non era la moda che mi interessava».
A cosa miravi esattamente?
«Non avevo idea, ma un po’ vigliaccamente invece di andarmene mi sono fatto lasciare dalla moda. Stesso metodo che utilizzavo con le donne. Non lasciarle ma farsi lasciare. Era questa la cifra autentica della mia infedeltà. Perciò da infedele mi ero stancato di Parigi, di Milano e del mondo delle sfilate e delle riviste di moda. A New York viveva il mio gemello che lavorava come ritrattista per il New Yorker. Arrivai senza soldi e senza vere prospettive».
Non è la città migliore per accogliere uno così.
«L’inizio fu faticosissimo. Oltretutto arrivai nel 2001, poche settimane dopo l’11 settembre. Era una città spettrale. Stordita. Poi accadde una cosa sorprendente. Un normalissimo scatolone pieno di libri, frutto del trasloco, mi apparve improvvisamente sotto una luce diversa. Come se quell’oggetto del tutto anonimo e funzionale subisse, nell’impulso della fantasia, una radicale metamorfosi».
Che cosa immaginavi?
«Lo vedevo riempito da vecchie storie che conoscevo. Ed è stato come un “alzati e cammina”: un minuto prima mi sentivo come morto, un minuto dopo ero febbrilmente vivo. Ho ritagliato quel cartone, l’ho dipinto ricavandone una stanza in miniatura, arredandola con i particolari del racconto che la nonna mi aveva fatto sulla guerra. Sentivo crescere delle suggestioni e tutto mi sembrava preciso, bello e fluido. Avevo esattamente riprodotto, con degli oggetti e delle sagome, il senso di quel racconto. Poi l’ho fotografato e lì ho capito che quella strada mi interessava percorrerla tutta».
Cosa vedevi in quella direzione?
«La forza dell’artificio, questo vedevo. Certo tutto nasceva dalla suggestione di una memoria, quella di mia nonna, ma filtrata dalla fantasia. E così mi è sembrato di mettere a frutto la lezione di mio padre che per tutta la vita ha pensato che il mondo vero non esistesse e che c’è solo il mondo della menzogna, del falso. Mio fratello Andrea mi aiutò ad ottenere un appuntamento con la responsabile delle immagini del New Yorker: Elisabeth Biondi, una donna molto temuta».
Tu andasti e cosa accadde?
«Le mostrai le foto e fu gentilissima. Perché la guerra? Mi chiese. Durante il secondo conflitto mondiale era cresciuta a Berlino. Mi raccontò che il padre era un uomo buono che la guerra aveva trasformato in un sadico e un violento e fu questa mutazione a spingere Elisabeth ad emigrare in America. Le risposi che della guerra, la prima e la seconda, era piena la mia memoria e che pur non avendola vissuta era come se ne fossi stato uno dei testimoni involontari, anonimi, come anonime dovevano essere le mie foto. È strano».
Cosa è strano?
«Quello che mi prefiggevo con il mio lavoro di onesto impostore era di dare all’illusione una solida e credibile cornice storica».
Come un cortocircuito tra vero e falso?
«Tra un mondo che fosse solo mio ma al tempo stesso riconoscibile da tutti. In fondo l’arte, se di arte si può ancora parlare, vive dentro questo scarto o passaggio».
Mi colpisce la tua allusione alle foto anonime.
«C’è in esse una bellezza struggente. Ne ho collezionate a migliaia ed era come riconoscervi uno stile, un’epoca, un’identità».
A proposito di identità, come hai vissuto
l’indistinguibilità dal tuo gemello?
«Come un’occasione di grande complicità e intesa con mio fratello ma al tempo stesso con un senso di smarrimento. Sono cresciuto dentro uno specchio.
Sono cresciuto con questa domanda ricorrente: “tu chi sei dei due?”, credo di aver ricostruito la mia identità grazie alla memoria applicata al mio lavoro. Lì c’è l’infinita conferma di chi sono veramente».
Forse una conferma è arrivata anche dall’aver reso esplicito il rapporto con tuo padre.
«È stata una resa dei conti, ma in fondo è a lui, alla sua scuola del fallimento, che devo tutto. Mi ha paradossalmente allenato a fallire. Senza questa educazione non ce l’avrei fatta».
Glielo hai mai detto?
«No, non ci siamo più parlati. Lui è morto sette anni fa. Da molto tempo si era asserragliato in uno squallido appartamentino di un paesotto toscano. Credo che non parlasse più con nessuno. Per quasi tutta la vita non ho provato affetto per lui e ho disprezzato il suo lavoro. Mi sono difeso così dalla sua arroganza. Sono riuscito ad amarlo e ad apprezzare la grande intelligenza dei suoi libri solo quando non c’è stato più».
Non l’hai più visto?
«Ero a Milano quando morì per un tumore mal curato. Non feci in tempo ad assisterlo. Lo raggiunsi il giorno dopo la sua morte. Lo vidi steso sul letto, vestito con l’abito migliore, e pensai in quel momento che tutto l’odio che aveva nutrito per la vita fosse sparito. C’era un uomo pacificato. Poi arrivarono quelli delle pompe funebri e spostarono il corpo nella cassa. E sul letto notai una grande macchia liquida che il lenzuolo aveva assorbito. Di lui restava quell’ombra opaca e ho pensato che fosse il segno indelebile di un uomo fragile, perché solo uno davvero fragile pur di non soccombere si era trasformato in un persecutore».
Anche tu dai l’idea di essere una persona pacificata.
«Mi sono liberato da molti fantasmi. Oggi ho preso a dipingere. E ho scoperto che la pittura mi dà più libertà della fotografia. Ho anche deciso di fare libri per bambini. Ne uscirà uno in ottobre».
È un modo per tornare a tuo padre?
«Forse sì, non mi avventuro più nei meandri dell’inconscio, ma penso sia così. Penso che riuscire a raccontare storie per bambini è dare un nuovo senso alla mia infanzia. A casa ho tutta una collezione di costumi che ho utilizzato. Mi vestivo da soldato, da clown, da mago, da passante e poi mi fotografavo.
Entravo nelle mie storie. Non ho più voglia di travestirmi. Forse è giunto il tempo di essere me stesso».