Robinson, 18 settembre 2021
Non c’è solo la decrescita
Chi non avesse ancora incontrato il pensiero di Serge Latouche e amasse l’idea della decrescita, più o meno felice, oppure volesse meglio contrastarla, ha ora in quest’ultima opera del filosofo e politologo francese una sintesi che comprende con chiarezza, e aggiorna, tutte le tappe precedenti della sua prolifica produzione da Il pianeta dei naufraghi fino a Usa e getta e Limite. Esito a definirlo anche un economista perché il suo programma prevede letteralmente la «fuoriuscita dall’economia», non solo «dal capitalismo», e il passaggio a un’altra dimensione, quella della solidarietà, dell’altruismo, della reciprocità e della cultura del dono.
Il fatto è che Latouche è fondamentalmente un filosofo, erede della scuola di Marcel Mauss ( l’antropologia del dono), antiutilitarista, sodale a lungo del postmodernismo e decostruzionismo di Baudrillard, e usa mettersi al riparo dall’accusa di catastrofismo e di estremismo, schernendosi e offrendosi talvolta come portatore di paradossi e provocazioni. Ma spesso poi salta, senza esitazioni, lo steccato e propone alla politica la sua utopia di una «abbondanzafrugale» e di una «prosperità post- crescita», cose che richiedono non meno di una «rivoluzione culturale».
Latouche ritiene i suoi stimoli utili a una presa di coscienza della rischiosa situazione in cui il pianeta si trova a causa dell’«impronta ecologica» dell’umanità. Questo costo, per la Terra, della nostra presenza – spiega tra le altre cose questa Breve storia della decrescita – ha superato i due ettari annui pro capite, vale a dire che un cittadino americano consuma nove ettari, un canadese sette, un europeo tra quattro e sei. Ragionando come Latouche, si arriva alla conclusione che se tutti vivessero come i francesi servirebbero tre pianeti, se come gli americani ne servirebbero sei. Ma per “l’obiettore di crescita” il cuore del ragionamento è che il crollo inevitabile di questa società dello sviluppo (che rischia sì di portare alla fine dell’umanità) non sarebbe necessariamente una cattiva notizia, perché così non sarebbe come rinunciare a una buona pietanza, al contrario sarebbe una «buona novella», buonissima, perché la pietanza è cattiva e rifiutandola saremo più felici. L’illimitatezza è il cuore della modernità e questa si scontra con la finitezza della biosfera. E per di più la società della crescita «non è desiderabile perché produce aumento delle ineguaglianze e ingiustizie», crea un benessere illusorio, non crea «neppure per i fortunati un clima conviviale» ed è per tutti «un’antisocietà», una «dissocietà» malata della sua ricchezza. In sostanza per Latouche la storia dell’umanità è un progetto fallito perché ispirato da una «sciagurata follia» che ha una sola finalità: perpetuare l’economia dell’iperconsumo e dello spreco attraverso la menzogna dell’economia e di un indicatore fallace come quello del prodotto lordo.
Con tutti i vizi del Pil, questo giudizio merita certo di essere passato al vaglio critico dei dati, considerando sia i benefici della scienza, della rivoluzione industriale, e dei suoi seguiti ( aspettative di vita, mortalità infantile, riduzione della violenza, uscita dalla povertà, sconfitta delle epidemie, compresa la presente che siamo in grado di contrastare grazie anche alla denigrata economia e alla grande industria che è riuscita a produrre vaccini a impressionante velocità). Non c’è traccia di progresso in Latouche, solo proiezioni del divario tra le progressioni di reddito tra i quintili più ricchi e la massa sottostante, che spiega sì il risentimento comparativo, che è parte del paesaggio contemporaneo, ma omettendo i cambiamenti reali della condizione umana avvenuti ovunque, anche e soprattutto in Asia e in Africa. Né vi è traccia dei miglioramenti tecno- scientifici che hanno già tante volte spostato i limiti di fattibilità e sostenibilità che parevano insuperabili. La specie umana, nonostante tutta la nostra perenne insoddisfazione, è capace di astuzie che aumentano la disponibilità di cibo e cambiano le fonti di energia, quando una si esaurisce. E la politica sembra persino capace di pensare, talvolta, riforme che incentivino queste svolte.
Bisogna lavorarci prima di darsi per persi. La rilocalizzazione di produzioni agricole (mercati a chilometro zero) può essere una buona idea: evitare il giro della terra per le salse di pomodoro o le acque minerali può ridurre le emissioni di anidride carbonica, ma la regressione all’economia preindustriale non sembra una soluzione pratica. E nemmeno gradita. C’è un limite anche alla possibilità di trasformare le preferenze degli individui e di rivoluzionare i valori nella loro testa. Quanto all’ipotesi, affacciata da Latouche, di «riabilitare la povertà» non si vede all’orizzonte politico capace di pronunciarlauscendone illeso.