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 2021  settembre 18 Sabato calendario

Un’intervista del 2006 di Jonathan Lethem a Bob Dylan

Dal libro “Like a rolling stone. Interviste” di Bob Dylan (Il Saggiatore, 592 pagine, 24 euro).

«Non mi porto dietro un branco di astrologi che mi dicono cosa succederà. Faccio le mie mosse e una cosa tira l’altra». Vi suona familiare? Mi trovo nella suite vista mare di un albergo di Santa Monica, a ignorare un vassoio di fette di ananas e biscotti coperti di zucchero a velo, mentre Bob Dylan se ne sta seduto dall’altro lato del registratore, facendo del suo meglio per rispondere alle mie domande. L’uomo seduto davanti a me si agita sulla sedia, non per impazienza, ma perché vive il momento, pronto a farmi ridere e a scoppiare lui stesso in una risata nel giro di un attimo. L’espressione sul suo volto, di persona, sembra comprimere, racchiudere diverse versioni del suo personaggio nel tempo, un uomo di sessantacinque anni con un diciannovenne che si scatena dentro di lui, da qualche parte. Più di ogni altra cosa, però, sono le diverse intonazioni della sua voce a generare un effetto caleidoscopico nel tempo: qui il guaito del cucciolo del folk o il sarcastico rimshot dell’idolo hipster perseguitato, lì i toni seduttivi del sex symbol anni settanta, e poi di nuovo (e sempre) il parlato gutturale dell’anziano statista, quella voce da cantante blues d’altri tempi che da giovane aspirante ha invocato in modo tanto leggendario, agli esordi della sua carriera, per poi invecchiarci dentro, a poco a poco.
È proprio quella voce, la voce di un furfante senza età nella sua decrepitezza, a fare da fondamento al paradosso del successo di Modern Times, il suo trentunesimo album discografico. Sono forse queste le nostre «tonalità moderne» o è un antico sogno da film muto, una fuga in bianco e nero? Modern Times, come Love and Theft e Time Out of Mind prima di lui, sembra osservare un mondo in frantumi attraverso il prisma di un cuore consunto e navigato, ma decisamente integro. Come fa a evocare una tale autorità senza tempo? «Voglio portare a termine questo disco, qualunque cosa accada», mi dice. «Ho scritto queste canzoni non in stato meditativo, ma in uno stato di trance, quasi ipnotico. È così che mi sento? Perché mi sento così? E chi è quel “me” che si sente così? Non sarei in grado di dire neanche quello. Ma so che queste canzoni sono inscritte nei miei geni e che non potevo impedire loro di venire fuori». Ciò non significa che Modern Times o Dylan siano dimentichi del momento presente. Il disco è disseminato di palesi riferimenti (o dovrei dire di esche?) a eventi mondiali come l’11 settembre e l’uragano Katrina, anche se chiunque cercasse di trovarci una morale, per parafrasare Mark Twain, andrebbe fucilato. Anziché analizzare i suoi testi, Dylan preferisce indugiare sulle canzoni come reperti musicali, descrivendo il processo che ha portato alla loro composizione. Come già accaduto in precedenza, il cantante e artista famoso per il suo rapporto di amore-odio con gli studi discografici («Non mi piace fare dischi», dichiara semplicemente, «lo faccio con riluttanza») ha registrato il nuovo album con la band che lo accompagna in tournée. Il produttore è lo stesso Dylan, mascherato dietro lo pseudonimo di Jack Frost. «Non avevo più voglia di farmi scavalcare da produzioni esagerate», dice. «Ho sempre avuto l’impressione di essere io a produrre i miei dischi, ma c’era sempre qualcuno che si metteva in mezzo. In ogni caso, credo che nessuno capisca come dovrei suonare tranne me, nessuno sa cosa voglio dai musicisti tranne me, nessuno può dire loro cosa stanno sbagliando, nessuno può capire quando un musicista è in grado di suonare ma non lo sta facendo come me. Io ci riuscirei a occhi chiusi».
Come sempre, Dylan affronta le cose girandoci intorno, definendo se stesso innanzitutto in base a quello che non è, che non vuole, che non gli piace, di cui non ha bisogno, individuando significati tramite un processo di eliminazione. Quando azzarda un’affermazione positiva nel folle caos di tutti quei dubbi, questa assume la carica di una spacconata giubilante. «Quella con cui suono ora è la band migliore di cui abbia mai fatto parte, che abbia mai avuto, ogni singolo uomo. Quando suoni con delle persone cento volte l’anno, sai cosa possono o non possono fare, cosa gli riesce bene, se ti interessa averli lì. Ci vuole molto tempo per formare una band di singoli musicisti. La maggior parte dei gruppi musicali sono vere e proprie gang. Che sia metal o pop rock, o quello che è, hanno una mentalità da gang. Ma per quelli tra noi con più anni sulle spalle, gang vuol dire criminalità organizzata. Non è qualcosa a cui aspirare. Per questo disco non ho dovuto insegnare niente a nessuno. Ora, nella mia band, ho gente che è in grado di tirar fuori di tutto, sorprendendo persino me». La voce di Dylan assume la cadenza di una recitazione improvvisata, fitta di rime interne, al punto che quando poi mi sono trovato a trascrivere la registrazione ho avuto la tentazione di organizzare le parole su carta come il testo di una canzone. «Questa volta sapevo che non mi sarei messo inutilmente a scrivere qualcosa che mi piaceva davvero, a cui tenevo molto, per poi arrivare in studio e vedermelo massacrare, deformare, per finire con una cosa sconclusionata, priva di qualsiasi risonanza. Questo mi ha dato una bella svegliata. Mi sono sentito libero di fare tutto ciò che mi andava».
Ma portare in studio la band dei suoi sogni è stata solo metà della battaglia. «I dischi che ascoltavo e che adoro ancora oggi… ormai è impossibile ottenere sonorità del genere», spiega. Come se, dopo aver portato il suo nuovo materiale in studio, Dylan non fosse del tutto convinto del patto stretto con il diavolo per arrivare fin lì. «Brian Wilson ha fatto album con soli quattro pezzi, ma oggi non si riuscirebbe a fare di meglio neanche con cento canzoni a disposizione. A tutti noi piacciono i dischi che si ascoltano sul grammofono, ma siamo sinceri, quei giorni ormai sono andati. Si fa quel che si può, si cerca di frenare la tecnologia in ogni modo possibile, ma non conosco nessuno che sia riuscito a registrare un album con un sound decente negli ultimi vent’anni, sul serio. I dischi moderni, quando li ascolti, sono terrificanti, col suono spalmato dappertutto. Non c’è definizione, nemmeno nella parte vocale, nulla, è tutto… statico. Anche i miei pezzi probabilmente erano dieci volte meglio in studio, quando li abbiamo registrati. I CD sono insignificanti, privi di qualunque levatura. Ricordo che quando quel tizio di Napster se ne è uscito dicendo: “Tutti potranno ascoltare musica gratis”, io ho pensato: “E perché no? Tanto non vale niente comunque”». Una domanda che ho sempre voluto fare: quando una canzone ricompare improvvisamente in scaletta, ripescata dalle centinaia del suo repertorio, è perché si è messo a riascoltare i suoi vecchi dischi? «Non ascolto nessuno dei miei dischi. Quando ci sei dentro, non riesci a percepirli che come delle repliche. Non capisco perché qualcuno dovrebbe riguardare i film che ha fatto: tu non rileggi i tuoi libri, no?». Non ha tutti i torti. «Stranamente, a volte mi capita di sentire la cover di una mia canzone e di pensare di poterla fare anch’io. Se qualcuno l’ha ritenuta tanto degna di interesse, perché io no? A volte riprendo proprio gli arrangiamenti. I Dead hanno fatto un sacco delle mie canzoni, e noi abbiamo ripreso molti dei loro arrangiamenti, perché erano migliori dei miei. Jerry Garcia era capace di percepire la canzone. Perciò, quando volevo inserire qualcosa di diverso in scaletta, tiravo fuori uno dei dischi dei Dead e sceglievo da lì. Non ho mai usato i miei dischi per farlo». A proposito: «Ho sentito dire, come forse avrai sentito anche tu, che gli arrangiamenti cambiano da una sera all’altra. Be’, sono tutte balle, gente che non sa cosa sta dicendo. Gli arrangiamenti non cambiano da una sera all’altra. Sono le strutture ritmiche a essere diverse, tutto lì. Non si possono cambiare arrangiamenti da una sera all’altra, è impossibile».
Dylan sottolinea che la percezione di un brano per un dato ascoltatore in una data sera dipende dal posto in cui è. «Non sopporto di suonare nelle arene, ma lo faccio lo stesso. Però so che non è lì che la musica dovrebbe stare. Non dovrebbe essere ascoltata in uno stadio calcistico, non è: “Ehi, come andiamo stasera, Cleveland?”. A nessuno gliene frega niente di come va a Cleveland, stasera». Sorride e alza gli occhi al cielo, per farmi sapere che è consapevole di aver fatto una battuta alla Spinal Tap. Poi parte con un altro affondo: «Dicono: “Dylan non parla mai”. Ma di che dovrei parlare! Non è per quello che un artista si presenta di fronte a tante persone». La frase sembra sfacciata, ma il tono è quasi supplichevole. «Un artista è lì per un altro motivo. Forse un gruppo di auto-aiuto, una cosa alla Dr. Phil, direbbe: “Come ve la passate?”. Non voglio essere acido e dire che non me ne importa niente. Importa, e anche parecchio, altrimenti non sarei lì. Ma è un altro tipo di legame, una cosa che non si può prendere alla leggera». Prosegue: «È qualcosa che si ravviva ogni sera, o almeno sembra che sia così». Pausa. «Ma diventa rischioso. Insomma a suonare dal vivo si rischia la vita, se lo si fa nel modo giusto».
Lasciatemi un momento per presentarmi, io, l’intervistatore e vostra guida. A quarantadue anni, di secondo lavoro faccio il romanziere e sono fan di Dylan da tutta la vita, ma sono fra quelli che (è importante sottolinearlo) non hanno memoria degli anni sessanta. Non sono più tanto giovane, ma lo sono rispetto all’incarico che mi è stato assegnato qui. I miei genitori erano fan di Dylan e i miei primi assaggi della sua musica mi sono arrivati tramite i loro LP: ho scelto Nashville Skyline perché aveva l’aria simpatica. Il primo disco di Dylan che ricordo di aver percepito come nuovo, perché l’ho visto arrivare nei negozi e recensire sulle riviste e sono quindi riuscito a farlo mio, è stato Slow Train Coming, nel 1979. In qualità di fan appena ventenne, assimilai tutto il repertorio di Dylan fino a quel momento e ne conclusi che il suo assortimento di stili e prese di posizione era di per sé la misura del suo genio: chiamateci pure la generazione di Biograph, se credete. In altre parole, il tentativo di cercare di etichettare Dylan e la sua arte in un modo o nell’altro mi appariva ridicolo, una schermaglia sbagliata, combattuta prima che si capisse che la reattività mutevole, ancorata al momento presente solo da un impegno esistenziale verso l’atto stesso del connettersi, era quel dono di libertà che le sue canzoni parevano trasmettere da sempre. Negarlo proprio a lui sarebbe stato ridicolo. A metà degli anni ottanta, mi aspettavo di tutto da Bob Dylan, ma in primis mi aspettavo che facesse del suo meglio. Cosa che a metà degli anni ottanta Dylan non fece affatto. Ricordo di aver portato a casa Empire Burlesque e di aver cercato in tutti i modi di individuare la grandezza dei suoi pezzi sotto il torbido baluginio della produzione di Arthur Baker. Una battaglia persa. La prima volta che l’ho visto in concerto è stato – ebbene sì – in uno stadio, a Oakland, con i Grateful Dead. All’uscita di Down in the Groove, nel 1988, la canzone peggiore dell’album sembrava descrivere la mia disperata situazione di fan: ero innamorato della ragazza più brutta del mondo. Eppure, il Dylan degli anni ottanta era il mio Dylan e io ce la mettevo tutta per apprezzare quel che c’era.
Il dramma del rapporto da me proiettato sul mio eroe, è quello descritto dallo stesso Dylan a David Gates di Newsweek nel 1997, come pure nel capitolo «Oh, Pietà» della sua autobiografia, Chronicles: il trasferimento e la riappropriazione della sua voce e della voglia di comporre e di esibirsi che si verificò poco per volta negli anni novanta. Per i primi anni di quel decennio sembrava quasi avesse chiuso, o perlomeno che avesse trovato rifugio e conforto nei dischi di folk acustico da solista che aveva cominciato a registrare nel suo garage: Good As I Been to You e World Gone Wrong. Poi arrivò Time Out of Mind, un album coesivo (e ampio!) quanto quelli registrati in precedenza. Quando a quel primo album seguirono Love and Theft e Chronicles, un normale fan di Dylan deve aver pensato di vivere nel migliore dei mondi possibili.
Di fatto, con lo show della Satellite arrivato nelle nostre case (e di cui ha promesso di fare almeno cinquanta puntate!), si può dire che Dylan abbia concesso al pubblico la sua voce e il suo cuore più nell’ultimo decennio che in tutti gli anni precedenti, più di quanto nessuno avrebbe mai osato sperare. «Buffo che tu lo dica», risponde, quando accenno al «mito dell’inaccessibilità» che lo circonda. «Ho appena visto che Wenner Books ha pubblicato un libro di interviste con me che è alto così». Allarga le mani per mostrarmi cosa intende. «Cos’è successo a quell’inaccessibilità? Non è una contraddizione?». In effetti, quando ci si prende la responsabilità di intervistare Dylan, è davvero facile sentirsi dei semplici surrogati per un pubblico che non ha mai smesso di pretendere dal suo eroe standard davvero impossibili: più lui ci dà, più gli viene chiesto in cambio. Il più grande artista della mia epoca mi ha dato tutto quello che avrebbe mai potuto venirmi in mente di chiedergli, eppure eccomi qui a mediare tra lui e le aspettative che nessuno di noi due può fingere di ignorare.
Non posso fare a meno di chiedergli se il successo ottenuto dal documentario di Martin Scorsese No Direction Home lo abbia portato a provare una volta di più il pungente disagio del suo ruolo di salvatore. «Sai, tutti danno grande importanza agli anni sessanta. Gli anni sessanta, neanche fossero la Guerra di secessione. Eppure, diciamolo, stai parlando con uno che gli anni sessanta ce li ha in pugno. Ho mai voluto catturarli? No, ma li ho in pugno, chi può negarlo?». Subito mi incanta con un’altra battuta: «Se li vuoi te li do, eh. Sono tutti tuoi». Per Dylan, come sempre, quel che più importa è il lavoro, non in una prospettiva storica, ma nel momento presente. «I miei vecchi pezzi hanno un qualcosa… sono d’accordo, hanno un qualcosa di speciale! Credo che ne siano state fatte delle cover… forse non quanto White Christmas o Stardust, ma l’elenco supera i 5000 dischi. Vuol dire che parecchie persone si sono messe a riprendere le mie canzoni, perciò deve esserci qualcosa di speciale. Al posto loro, farei una cover delle mie canzoni anche io. La maggior parte di quei pezzi li ho scritti nel 1961-62 e nel 1964, 1973, 1985, ma riesco ancora a suonarli quasi tutti. Quanti altri artisti hanno scritto canzoni a quell’epoca? E quanti se ne sentono ancora oggi? Adoro Marvin Gaye, adoro tutta quella roba lì. Ma quanto spesso si sente What’s Going On? Chi la canta? Chi canta Tracks of My Tears? C’è qualcuno che la suonerà stanotte?». Dopodiché riprende a scavare per raccontare tutta la verità sulle sue avventure negli studi di registrazione: «Ho passato dei momenti difficili là dentro. Sono riuscito a inventarmi delle canzoni, ma ho fatto fatica a registrarle. Forse però è giusto che sia così. Perché altri pezzi incredibili, che ti portano alle lacrime… per tutti noi che siamo rimasti a bocca aperta ascoltando brani del tempo che fu, quante di quelle canzoni sono davvero valide? O era tutto merito dei dischi? Be’, i dischi erano meravigliosi. Erano una forma d’arte. Sai, a dirla tutta, forse io non ne ho mai fatto parte sul serio, perché i miei dischi non avevano niente di artistico.». Dylan riflette sul destino dell’arte nella posterità: «Quante persone riescono a vedere la Monna Lisa? Sei mai stato lì? Ci staranno tre persone alla volta, a dir tanto. Eppure, da quanti anni è là? Sono più le persone che hanno visto quel quadro di quelle che abbiano mai ascoltato, facciamo un nome, ma non Alicia Keys, diciamo Michael Jackson. Sono più le persone che hanno visto la Monna Lisa di quelle che abbiano mai ascoltato Michael Jackson. E riescono a vederlo solo in tre per volta. Questo si che è avere un impatto».
Parlare di quadri ci porta a disquisire di altre forme d’arte: «La cosa che mi piace dei libri è che non hanno niente a che vedere con il rumore. Qualunque cosa tu metta sulla pagina, è come per i quadri: nessuno lo può cambiare. Scrivere un libro è la stessa cosa: è inciso nella pietra, o è come se lo fosse! Non cambierà più. Tra l’uno e l’altro non serve cambiare tonalità o alzare il volume per poterlo leggere». Dylan ha assaporato il successo di Chronicles: «La maggior parte di coloro che scrivono di musica non ha idea di come sia suonarla. Ma quando ho scritto questo libro mi sono detto: “Quelli che scriveranno le recensioni, loro sì che sanno di cosa sto parlando”. Poi uno si abitua male. Sanno come si scrive un libro, lo sanno meglio di me. Alcune delle recensioni di questo libro mi hanno quasi fatto piangere, in senso buono, s’intende. Non mi era mai successo con i critici musicali, mai».
In una giornata di conversazioni circolari, siamo tornati a parlare del nuovo disco, per cui mi arrischio a chiedergli nuovamente di alcuni leitmotiv. Modern Times sfuma l’atmosfera scherzosa e affettuosa di Love and Theft, virando verso un territorio più sinistro, verso la lingua delle ballate a tema omicida, alla Edgar Allan Poe: avversari e massacri, giardini stregati e fantasmi. Blues e canzoni popolari di vecchia data vengono ripresi liberamente, come una seconda natura: «Questa volta non mi sono sentito limitato, o meglio, ho percepito il limite di voler restringere i miei obiettivi, ma senza mescolare le cose: tutto doveva essere chiaro, ogni verso aveva uno specifico significato. È così che mi sento da qualche parte, dentro di me, nella mia genealogia: molti di noi non hanno un istinto omicida, ma non gli dispiacerebbe avere licenza di uccidere. Ho lasciato fluire il testo e, quando poi l’ho cantato, mi è sembrato riverberasse una presenza antica». Sembra quasi che Dylan abbia l’impressione di abitare un corpo infestato – come una casa – dai fantasmi dei bardi, dei suoi precursori in campo musicale. «Quei pezzi sono nei miei geni, non potevo impedire loro di venire fuori. È stata una specie di reincarnazione. Sono canzoni che vantano una sorta di pedigree. Ma la faccenda del pedigree funziona solo fino a un certo punto. Si può andare indietro fino all’anno mille, e lì la gente aveva solo un nome in mente. Nessuno andrà mai più indietro di quando la gente aveva un solo nome in mente». La sua risposta mette definitivamente fine alla mia ricerca di indizi sulle sue influenze musicali. Gli confesso che, nonostante si parli di nemici, il nuovo disco a mio parere contiene una certa generosità di spirito, persino un senso di accettazione. «Già. Uno deve accettare se stesso prima che gli altri possano accettarlo per quello che è. Tutto sommato, poi, non è altro che un disco. I testi passano via veloci».
Bob Dylan vuole che io capisca cosa l’ha spinto a diventare quello che è, ma per riuscirci devo comprendere cosa ha visto negli artisti che l’hanno preceduto. «Se pensi a tutti gli artisti che hanno registrato dischi negli anni quaranta, negli anni trenta e negli anni cinquanta, c’erano delle grandi band, certo, ma erano tutte la proiezione di un singolo uomo: la band di Duke Ellington era la proiezione di un singolo uomo, la band di Louis Armstrong ruotava tutta intorno alla voce di Louis Armstrong. In più tutto il rhythm and blues, il rockabilly, tutta la roba che mi ha consentito di fare quello che faccio oggi, era tutto su base individuale. Era quello che si sentiva: l’urlo di un individuo solo nella foresta. Ormai si è perso anche quello. Insomma, chi è l’ultimo cantante singolo che ti viene in mente? Elton John, forse? Parlo di artisti con una forza di volontà sufficiente da non conformarsi a realtà diverse dalla propria. Patsy Cline e Billy Lee Riley. Platone e Socrate, Whitman ed Emerson. Slim Harpo e Donald Trump. È una forma d’arte ormai perduta. Non so chi altro la segua a parte me, a dire il vero». È soddisfatto? «Ho sempre pensato di fermarmi solo una volta raggiunto l’apice. Non volevo svanire a poco a poco. Non volevo essere una ex celebrità. Volevo essere qualcuno che non sarebbe mai stato dimenticato. In un modo o nell’altro, penso di essere a posto ora, di aver ottenuto quello che volevo». Da queste sue osservazioni nasce un’altra opportunità per ridere un po’: «So che potrei smettere di andare in tournée in qualsiasi momento, ma proprio non mi va, ora come ora». Una notizia più che sufficiente per me, al di là della promessa di un terzo disco per la sua famosa trilogia. Che il Never Ending Tour possa davvero non finire mai. «Penso di essere arrivato a metà della mia vita, ormai», mi dice Bob Dylan. «E non ho intenzione di andare in pensione».