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 2021  settembre 18 Sabato calendario

Intervista a Kazuo Ishiguro

Quel che resta del Nobel è «lo stesso studio disordinato di prima, con gli stessi problemi per scrivere quello che ho in mente». Il premio «non mi ha cambiato, almeno finora», dice Kazuo Ishiguro, poi confida la ricerca che ha fatto sui vincitori precedenti per capire se, e come, inciderà su di lui. Il suo ultimo romanzo, Klara e il Sole (uscito in Italia per Einaudi), è il primo che il 66enne autore inglese di origine giapponese ha pubblicato dopo avere ricevuto nel 2017 il massimo riconoscimento della letteratura mondiale. Nonostante Ishiguro avesse già vinto nel 1989 il Booker, più prestigioso premio letterario in lingua inglese, con Quel che resta del giorno , giudicato da Salman Rushdie "un capolavoro" e adattato in un film di altrettanto successo, è inevitabile chiedergli cosa ha provato dal pomeriggio di quattro anni fa in cui andammo a fargli visita nella sua casa londinese, insieme a un folto gruppo di giornalisti britannici e stranieri, appena giunta notizia dell’assegnazione del Nobel.
Come ricorda quella giornata, Ishiguro?
«Come una grande sorpresa. Non mi aspettavo minimante di vincere, doveva essere un mattino come gli altri, ero nel mio studio a scrivere per l’appuntoKlara e il Sole . Poi scoppiò il finimondo».
Pensa di essere uno scrittore diverso, quattro anni più tardi?
«È presto per dirlo. Avevo già scritto un terzo di Klara e pianificato tutto il libro. È vero che con il Nobel dovetti interrompere il romanzo per sei mesi, ma quando l’ho ripreso sapevo come arrivare in fondo. Sarà il prossimo libro a dire se sono cambiato come scrittore».
Il riconoscimento può condizionare…
«I premi Nobel in campo scientifico che mi capita di incontrare spesso a Londra mi hanno parlato di una curiosa malattia di cui è vittima il loro ambiente: la sindrome del genio. I vincitori del Nobel, per quanto premiati per una materia assolutamente specialistica, credono di essere diventati geniali in tutto e cominciano a sproloquiare dicendo colossali sciocchezze. Per questo mi sforzo di astenermi dal firmare petizioni o dare opinioni: vorrei evitare di cadere nella stessa sindrome».
Però sente il peso del Nobel sul suo prossimo libro?
«Confesso che ho fatto una ricerca: sono andato a vedere che cosa hanno prodotto gli scrittori premiati con il Nobel dopo averlo vinto».
E cosa ha scoperto?
«Generalmente lo si vince da vecchi: io avevo 62 anni, età in cui uno scrittore di solito ha già dato molto, talvolta il meglio. Tuttavia ho scoperto che Gabriel García Márquez, dopo avere vinto il Nobel, ha pubblicato L’amore ai tempi del colera , uno dei suoi più grandi romanzi. Conservo qualche speranza di produrre ancora qualcosa di buono».
Torniamo al presente: dopo "Non lasciarmi", "Klara e il Sole" è il suo secondo romanzo su un futuro distopico: ama la fantascienza?
«Non ne leggo molta, anche se ho grande rispetto per il genere, ingiustamente tenuto ai margini, sebbene ora meno di un tempo.
Seguo e mi piacciono molto, invece, i film di fantascienza».
Il suo preferito?
«Indubbiamente 2001: Odissea nello spazio . Ma adoro tutto Kubric k. Dirò di più, per me è stato un po’ un modello: ho cercato temi completamente diversi per i miei romanzi come Stanley fece con il cinema, la fantascienza appunto in 2001 , l’horror in Shining , il futuro distopico in Arancia meccanica , la guerra in Il dottor Stranamore e Full Metal Jacket , l’Inghilterra del Settecento in Barry Lyndon … ».
Pensa che in futuro vivremo davvero in un mondo come quello di "Klara e il Sole", in cui androidi chiamati Amici Artificiali fanno compagnia agli esseri umani?
«In parte è già il nostro presente. I robot che ci fanno compagnia sono dietro l’angolo e l’ingegneria genetica permette di creare designer babies come desiderano i genitori: non viene fatto solo per ragioni genetiche».
Ed è una prospettiva che la compiace o la spaventa?
«Entrambe le cose. Credo che la tecnologia stia trasformando la medicina al punto da poter vincere le malattie più spaventose, come del resto sta dimostrando il vaccino contro il Covid. Ma mi domando dove ci fermeremo quando sarà possibile creare esseri geneticamente modificati, non solo più sani ma anche più belli, più forti, più intelligenti degli esseri umani normali, e questo mi impensierisce».
Il rapporto tra il robot Klara e la ragazzina ricorda un po’ quello tra l’alieno e il bambino nel "Piccolo principe" di Saint-Exupéry.
«Non conosco bene quel libro. Ma conosco la storia di Winnie Pooh: c’è un momento molto triste quando il suo amico umano Christopher Robin cresce e capisce che forse non resterà per sempre a giocare nel bosco con l’orsetto. Qualcosa di simile accade nel mio romanzo: è il simbolo del rapporto tra ogni bambino e il suo giocattolo, destinato a interrompersi quando un piccolo diventa adulto».
Il Sole del titolo allude a un dio: lei è credente?
«Non lo sono, pur avendo massimo rispetto per chi crede. Ho meno simpatia per le organizzazioni che si sono formate attorno alle religioni, ma riconosco che il bisogno di credere in qualcosa di buono e potente è una componente importante dell’animo umano.
L’abbiamo visto anche con la pandemia».
Il coronavirus l’ha spinta verso la fede?
«No, mi ha spinto verso la scienza. Anche quella, durante questa pandemia, è diventata per miliardi di umani l’equivalente di un dio buono e potente. Il paradosso è che venivamo da anni in cui la verità scientifica sembrava negata da vicende come la Brexit o Trump, grazie alle quali si è affermata l’idea secondo cui ognuno può avere la sua verità e chi grida più forte ha ragione.
Il Covid ha restituito ai dati scientifici il piedistallo che meritano. Certo, anche nei confronti del coronavirus esistono quelli che negano l’evidenza, ma sono una ristretta minoranza. Ci sono dei limiti a quanto si può credere alle frottole, quando in ballo c’è la vita o la morte, mentre se qualcuno vuole credere che Trump abbia vinto le presidenziali contro Biden, sarà impossibile fargli cambiare idea».
Perché ha dedicato questo libro al ricordo di sua madre?
«Perché è morta mentre lo stavo finendo: ero letteralmente seduto accanto al suo letto, le ultime notti, con gli appunti del romanzo sulle ginocchia per restare sveglio. Poi, dopo averlo finito, mia moglie mi ha detto che Klara ha qualcosa di mia madre: anzi di tutte le madri. L’amore incondizionato e altruistico per un’altra creatura».
Lei era bambino quando fu portato dai suoi genitori in Inghilterra da Nagasaki: cosa resta del Giappone dentro Kazuo Ishiguro?
«La lingua, che ho sempre parlato con mia madre e mio padre, seppure scorrettamente. I ricordi dei miei sulla bomba atomica, che ho messo nel mio primo racconto: ma la mia generazione, anche se nata appena un decennio dopo la Seconda guerra mondiale, se ne sentiva lontana, guardava al domani. E poi quando torno in Giappone è così diverso dalle mie memorie di bambino che non lo riconosco: mi sembra un paese straniero. Mi sento quasi più vicino all’Italia, mia moglie e io ci andiamo così spesso e volentieri che lei ha imparato l’italiano: non vediamo l’ora di tornarci, appena sarà di nuovo possibile viaggiare senza restrizioni e timori».