Avvenire, 17 settembre 2021
La «cinesizzazione» di Taipei
Domenica scorsa è stata sconfitta senza alternative per i democratici nelle elezioni parlamentari a Macao, ex colonia portoghese rientrata nell’abbraccio cinese nel 1999 e che segue – anzi anticipa – le linee già disegnate per Hong Kong dal Partito comunista cinese (Pcc). Anche qui, come si prospetta a Hong Kong nelle elezioni in programma a dicembre, la legge elettorale ha impedito la partecipazione di candidati non allineati con le scelte del Partito comunista cinese e ha proposto alla scelta della cittadinanza solo una parte dei seggi.
Proprio i due minuscoli ma influenti territori semi-autonomi evidenziano le ambiguità di Pechino. All’estero la leadership cinese va perseguendo colonizzazione economica e culturale, controllo delle risorse, extraterritorialità, mancato rispetto delle regole comunemente accolte nel consesso internazionale anche quando sottoscritte. Un’espansione a vasto raggio che ignora le denunce e le pressioni internazionali oppure le respinge al mittente con la minaccia di ritorsioni. Finora la visione neo-maoista e neo-imperiale del capo dello Stato e segretario del Partito comunista Xi Jinping ha avuto su questo piano buon gioco perché può anche far leva sul nazionalismo incentivato dal partito-Stato, ma resta sempre e comunque la necessità di chiudere gli spazi al dissenso interno.
L’atteggiamento repressivo verso Hong Kong (meno «necessario» a Macao) sta mettendo una pietra tombale sulla teoria di «un Paese, due sistemi» avviata quattro decenni fa da Deng Xiaoping. La fine anticipata delle autonomie delle due ex colonie europee, passate sotto il controllo di Pechino rispettivamente
nel 1997 nel 1999, pone però la dirigenza cinese di fronte a un bivio: perseguire l’obiettivo ormai screditato per giocare le (poche) carte restanti verso Taiwan che negli ultimi anni ha mostrato con chiarezza di volersene distanziare oppure far saltare il tavolo imponendo manu militari o con un cappio economico il proprio controllo sulla «provincia ribelle» con conseguenze sicuramente gravi.
Pechino ha oggi molte mani di carte aperte ma il tempo non gioca a suo favore, perché le incognite della ristrutturazione economica con le conseguenze anche della pandemia da un lato, i contenziosi internazionali e il malcontento interno dall’altro non favoriscono la stabilità del potere nonostante un crescente accentramento di poteri nelle mani di Xi.
«Prosperità condivisa» è la risposta ora propagandata, imponendo però rigide regole che sembrano collidere con decenni di sollecitazioni all’arricchimento inquadrato nel «socialismo di mercato». «Moralità» sembra essere diventato il nuovo slogan con cui non solo soffocare iniziative non conformi con la mutevole volontà della leadership di partito, ma anche imbrigliare richieste di maggiore giustizia e diritti. Con qual disegno?
A pochi giorni dal risultato elettorale Macao ha denunciato il crollo della sua industria del gioco d’azzardo sotto il peso delle nuove regole; Hong Kong, un tempo la città più libera dell’Asia sul piano imprenditoriale e delle libertà civili, va perdendo slancio, apparentemente a beneficio delle «nuove frontiere» di una Cina che continua a costruire scenari avveniristici fingendo di ignorare l’essenza del problema.
Quello di cui i «resistenti» di Hong Kong attendevano l’implosione cercando di forzarne i limiti e quello che Taiwan spera sia travolto dalle sue contraddizioni.