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 2021  settembre 17 Venerdì calendario

Un’anticipazione dall’autobiografia di Romano Prodi

Nella mia vita esiste un prima e un dopo». In mezzo c’è l’Iri, luogo perfetto perimparareadandare di bolina. Risalendo le correnti della politica. Con il rischio, ogni tanto, di derive. «Fu un periodo di una durezza estrema, con problemi sociali, politici, scontri con i governi, ma anche grandi soddisfazioni. Una vera palestra. Allora l’Istituto per la riconversione industriale è unaenorme holding posseduta dallo Stato, la più grande struttura produttiva italiana ed europea, con oltre 700 società, attività industriali e bancarie, più di 600mila dipendenti, e un fatturato di oltre 37mila miliardi di lire. Ma è gravato da un debito colossale».
«Una zavorra che rischiava di trascinare l’Iri nel baratro. Si trattava quindi di una sfida terribilmente complessa sia dal punto di vista politico sia della gestione economica. L’impresa pubblica era sotto accusa per i legami sempre più stretti che si erano creati con il potere politico. Da un lato gli imprenditori privati denunciavano che con l’impiego di risorse pubbliche si esercitava una concorrenza impropria nei loro confronti, dall’altro, l’opinione pubblica aveva un atteggiamento fortemente critico verso il ruolo sempre più penetrante dei partiti nella vita economica del Paese». «Questo malessere era divenuto nel tempo più diffuso e profondo. Il successo del libro di Scalfari e Turani (significativamente intitolato Razza Padrona) sintetizzava bene come fosse necessario un cambiamento radicale nei rapporti fra politica ed economia, ma la dimensione del problema rendeva evidente l’estrema difficoltà della sfida. D’altra parte, l’impresa pubblica non costituiva un momento transitorio, ma era un elemento fondamentale del sistema economico italiano. L’Iri era nato nel 1933 per salvare le banche e le aziende che erano sostanzialmente fallite per effetto della crisi del 1929. La sua dimensione si era dilatata in conseguenza degli eventi successivi e, anche, per la necessità di misurarsi con nuove sfide di fronte alle quali il capitalismo italiano si dimostrava particolarmente debole. Come la costruzione del sistema autostradale, di una rete telefonica odi una compagnia di bandiera per il trasporto aereo. Alle imprese pubbliche veniva inoltre chiesto di farsi carico della maggior parte delle aziende espulse dal mercato per i più disparati motivi. Di qui l’estensione dell’Iri verso il settore alimentare o di diversi comparti della meccanica. Nella situazione in cui il potere politico e quello economico erano così intrecciati non c’era alcuna possibilità di gestione razionalese non attraversocambiamenti tali da garantire un’autonomia gestionale delle imprese, al riparo dalle interferenze quotidiane dei partiti».
Ma la nomina di Prodi all’Iri viene comunque decisa dalla politica. «Certo, il mio nome fu proposto dal segretario della Democrazia cristiana. L’onorevole De Mita, interpretando le esigenze del Paese e le evoluzioni dell’opinione pubblica, propose e impose che si mettessero a capo delle imprese di Stato persone senza legami personali con i partiti. Persone, come si diceva allora, che non fossero interne al Palazzo. Per questo scelsero me per l’Iri. E così si comportarono anche gli altri partiti. I socialisti di Craxi, per l’Eni, puntarono su un altro professore, Franco Reviglio. E con la medesima logica un accademico come Umberto Colombo fu nominato all’Enea. Potevamo quindi ritenerci meno dipendenti da ogni comando diretto della politica e di conseguenza ci comportammo. Debbo tuttavia ripetere che, anche se De Mita ha sempre tenuto fede alla garanzia di indipendenza a noi assicurata al momento della nomina, a causa della complessità della politica italiana non è stato possibile evitare conflitti e tensioni con membri del governo, del Parlamento o dei poteri locali. Ma al di là di quanto è stato scritto, al di là delle contrapposizioni che si è amato tratteggiare, la faticosa azione di risanamento e di riorganizzazione ha potuto fare concreti progressi. Grazie anche alla presenza nell’Iri di dirigenti e operatori di alto livello: quando hanno potuto avere autonomia e capacitàdi decisione hanno ottenuto risultati difficilmente immaginabili, sia mettendo in atto importanti riorganizzazioni aziendali, sia aumentando la loro presenza nei mercati internazionali. Non è un caso che, dopo il radicale ridimensionamento delle partecipazioni statali, molte tra le maggiori imprese private italiane abbiano affidato il loro futuro agli antichi dirigenti delle aziendepubbliche, a coloro cheerano stati sdegnosamente definiti “boiardi di Stato”. Detto questo, non si possono certo sottovalutare le oggettive difficoltà del processo di risanamento, che doveva essere messo in atto azienda per azienda e impianto per impianto, con drammatiche implicazioni sulle singole persone. È stato un lavoro quotidiano, nascosto e faticoso, che ha potuto dare i frutti solo perché si è trattato di un gioco di squadra fortemente condiviso all’interno dell’Iri, anche se debolmente percepito all’esterno».
L’ALTOLÁ DI CRAXI
Comunque, i segnali ostili per Prodi sono subito chiari e forti. La Rai, in teoria controllata al 100 per cento dall’Iri, è lo specchio del Palazzo. Allora, come oggi. Ed è lì che Prodi va a dare battaglia con l’ambizione di far sentire la voce della proprietà. «Il mio fu un errore di imperdonabile ingenuità. Tutto è possibile in Italia, ma è impensabile dare alla Rai le regole della Bbc, come cantava Arbore». Siamo nel 1985. Da tre anni il Professore guida il conglomerato fondato da Alberto Beneduce. Ora il presidente del Consiglio è il segretario del Partito socialista Bettino Craxi, un ostacolo difficile da oltrepassare. «Partecipai, ed ero il primo a farlo in quel ruolo, a una riunione del Consiglio di amministrazione di viale Mazzini. Il presidente della Rai era Sergio Zavoli, un giornalista di vaglia con cui il rapporto fu subito ottimo. Avevo un obiettivo dichiarato: indicare, sottraendoli ai partiti, i nomi dei sei consiglieri che spettavano all’Iri, in quanto azionista della Rai. Un atto giuridicamente perfetto, ma temerario e, visto a posteriori, anche inutile. Chiesi ovviamente un incontro al presidente del Consiglio e Craxi, in poche parole, mi disse semplicemente che la Rai non la dovevo neppure toccare, sotto nessun aspetto. Neppure per la gestione economica, qualsiasi fosse l’andamento del suo bilancio. Aggiunse inoltre che a nominare i socialisti ci avrebbe pensato lui di persona e che i nomi eventualmente da me proposti li avrebbe messi, a prescindere, in conto alla Dc. Si fosse pure trattato di Federico Fellini. Si era infatti sparsa la voce che, per rafforzare la mia posizione, io avessi intenzione di proporre il suo nome. Un passo che non avrei mai compiuto anche se avevo, oltre che una sconfinata ammirazione, un caloroso rapporto personale con il grande regista. Non riuscivo nemmeno a immaginare Fellini passare ore e ore nel districarsi tra le complicate alchimie del consiglio di amministrazione della Rai. Debbo ammettere che anche i miei più vicini collaboratori ritenevano il mio proposito di intervenire su viale Mazzini del tutto sconsiderato. Una sera, unica eccezione in tutto il mio mandato, decisi di andare ad assistere a Quelli della Notte, la nota trasmissione di Renzo Arbore. Ci divertimmo da morire. Il commento di Craxi fu che, essendo noi morituri, non avremmo né dovuto né potuto ridere. Inun’altra occasione, durante una cerimonia, disse ad alta voce, così che tutti potessero sentirlo, che non sapevo nemmeno leggere. C’era durezza, insomma, ma non mancarono neppure le manifestazioni di personale rispetto. Anni dopo fu proprio suo figlio Bobo, con cui conservo un rapporto di stima e amicizia, a raccontarmi l’episodio di due parlamentari socialisti che, in visita ad Hammamet,alludevanoame,chiamandomi con il ben noto attributo di “Mortadella”... E Craxi, ridendo, rispose che a loro Mortadella avrebbe fatto un... così. Ho citato le tensioni con il leader socialista perché sono state le più teatrali, ma il problema riguardava tutto il mondo politico, a partire dalla Democrazia cristiana, all’interno della quale si scontravano diverse correnti e fazioni.
Un fatto di cui non ci si doveva stupire perché le difficoltà dei rapporti fra imprese pubbliche e potere politicohanno sempreaccompagnato la storia italiana e, per quanto posso vedere oggi, l’accompagneranno anche in futuro».