La Stampa, 17 settembre 2021
Le guerre dimenticate
Il tono è sempre quello, di rimprovero un po’ reverente: «L’Afghanistan certo, ma tutte quelle altre guerre dimenticate…». E no! Dimenticate proprio per nulla, non ci sono guerre dimenticate, ci sono soltanto le guerre che non vogliamo raccontare e son proprio quelle che conosciamo a puntino perché ci servono, quelle che conosciamo meglio nella loro violenza quasi tellurica. Altro che quei piagnoni del terzomondismo, fuori moda con la loro litania della dimenticanza. La guerra dimenticata è un volontario atto geopolitico, una strategia pianificata occidentale. Talvolta bruciante e brutale, a volte insidioso e glaciale. Un fantasma affligge il mondo occidentale, il suo spettro ostinato e testardo spunta ogni tanto in tv, sui social, nelle conversazioni: la guerra. Ma ogni volta, mitigata la breve febbre con appositi calmanti, si finge di non saperne nulla, così non devasta certo gli affari pubblici e la privata mobilitazione. E nella strategia i governi sedicenti di sinistra danno punti a quelli espliciti di destra.
L’Afghanistan di moda
Adesso che l’afghano derelitto di burqa, guerre quarantennali, taleban molesti e aspiranti al Califfato, per un po’ è di moda, ribadiamolo: non le raccontiamo quelle guerre perché sono scomode, intorbidano le nostre acque geopolitiche che vogliamo sempre placide e adatte a redditizi bagni terapeutici. Yemen, Siria, Somalia, Nigeria, Sahel, Congo, Repubblica Centrafricana, Caucaso, rispunta perfino Sendero luminoso in Perù, assomigliano a quel disordine che conclude le malattie incurabili.
Prima ancora della morte la consistenza della carne si dissipa e in questa moltiplicazione ognuno tira dalla sua parte. Fino alla putredine che non ammette resurrezione. Lo stesso Afghanistan non lo avevamo forse messo in cantina prima che il ritiro americano non ci riconducesse all’ora zero di venti anni fa, quando tutto era stato «risolto»?
Sono conflitti pericolosi perché svelano quale aggressività imprevedibile si annida nei contorni della nostra globalizzazione trionfante. Fiammate di crudeltà sconvolgono e gettano nello sconcerto zone del mondo da noi socialmente assistite e che immaginavamo per nulla degradate. Oibò, invece c’è disordine: furori inappagati, bambini ferocissimi, folle esaltate, automobili bomba, suicidi che diventano martiri, corpi massacrati esibiti come trofei, dei implacabili, case divelte, urla, bestemmie, buio. Non va bene. La maggior parte delle vittime le abbiamo tradite negando soccorso promesso. Tradire è atto semplicissimo da compiere. Più difficile è tradire bene.
Allora scandalizziamo, turbiamo i sonni provocatoriamente. È l’unica contromossa. Elenchiamo, una ad una come un meticoloso atto di accusa, guerre, guerriglie e massacri silenziosi che stanno intorno a noi e che mettiamo tra parentesi per i nostri sacrosanti interessi. Sperando che non ci coinvolgano per dovere di ufficio: ovvero un sequestro o la morte di un connazionale, una pulizia etnica un po’ troppo evidente e sconveniente anche per le maglie larghe della nostra indignazione, qualche barcone di fuggiaschi con facce e indirizzi di ivi residenti ancora ignote, che sollevino dal buio zone di sofferenza collettiva nel nostro mappamondo distratto.
Tra Houti e filo-sauditi
Lo Yemen per esempio: affiorano da mesi notizie scarse, come se le portassero lente carovane dell’epoca della regina di Saba. Un agguato riuscito dei ribelli sciiti del Nord, un razzo made in Iran scagliato addosso per vendetta agli implacabili sauditi, bombardamenti sauditi di città e paeselli, ultimo caso recentissimo con quarantacinque morti, in fortunata coincidenza per gli assassini, proprio con le ore furibonde del ritiro da Kabul. Coperto dalla indifferenza. Delitto perfetto.
Cosa c’è che non va? C’è che l’aggressore, il cattivo della favola senza lieto fine, si chiama Arabia Saudita, nostro inaggirabile alleato nel fastidioso vicino Oriente, con i suoi petrodollari è socio in mille affari perfino calcistici e sportivi, sta impoltronato nei consigli di amministrazione, fa girar denaro nelle economie asfittiche, per lui il Covid non esiste. E poi se smascheriamo per i crimini di guerra il bel tenebroso erede al trono, chissà perché descritto come modernista e affidabile, chi ci resta in quell’area così imbarazzante? Nessuno. Un pugno di sultanelli, petroldotati ma senza muscoli.
Allora: inventori del wahabitismo con sharia e cassaforte aperta a tutti i terrorismi islamisti, accomodatevi con le bombe su città e ospedali. Questi houti, sciiti forsennati e filo iraniani, non ci sono affatto simpatici neppure se sono bambini che muoiono di fame, bombe e di mancanza di medicine. Provate, ingenui, a organizzare un corteo per i bimbi yemeniti. Ve lo vieterà la prefettura: alto rischio diplomatico. Altro che guerra dimenticata.
L’Etiopia del Nobel Abiy
Cambiamo scenario, dove non c’è nessun jihadista a vista d’occhio, almeno per ora. Il Tigray e l’Etiopia. Un briciolo di emozione e di attenzione è stata registrata sui sismografi della compassione occidentale quando, in questa guerra civile dove inveisce un premio Nobel per la pace, ha fatto capolino la terribile parola: genocidio. Sì. Perché Addis Abeba, che affermava imprudentemente di aver messo a tacere i ribelli del Nord, ha cominciato a ricorrere all’arma finale, di staliniana memoria, provocare la carestia etnica. Ovvero Tigray sigillato, niente aiuti a popolazioni sfinite, tigrini cacciati dalle terre e sostituiti con i fidi amhara, profughi a migliaia che trottano disperati sulle ambe, catastrofe come si dice umanitaria. Poi calò il silenzio su Makalé. La pace è forse tornata tra gli ex nemici? Invece è feroce guerriglia, i tigrini combattono, recuperano città, si alleano con un’altra etnia, gli oromo anch’essi in lite con il governo, la guerra si allarga, le bande ripuliscono, ultimo bilancio dell’altro ieri 30 morti, i profughi non si scollano dalle loro piste polverose. Sì, abbiamo scelto il premio Nobel con il kalashnikov. Suvvia: l’Etiopia è un gigante dell’Africa importante per affari e geopolitica, rende di più che i selvatici e arroganti tigrini. Che volete vendere ai tigrini? Si dimentichi.
Mogadiscio perduta
La Somalia: quella l’abbiamo «dimenticata» opportunamente da trent’anni. Brutti ricordi: a Mogadiscio ha fatto naufragio, con l’operazione «Restor hope», l’imperialismo umanitario. Intervenire ovunque i diritti umani vengano violati, incarnare le speranze di tutti gli oppressi, nientemeno: feuilleton totalmente mitico e per questo totalmente rassicurante. Alcuni marines americani barbaramente e scenograficamente ammazzati per strada bastarono perché l’America facesse uno dei numerosi ripassi dell’arte delle ritirate. Rimorsi modesti: Bush padre aveva deciso l’intervento non per difendere i derelitti e periferici somali dai signori della guerra ma per chiudere con un gran finale la sua breve carriera di presidente. Oggi in Somalia gli shabab islamisti lavorano a tempo pieno, esportano terrorismo e mini califfati in Kenya e in Mozambico.
Nel Sahel siamo soci dei tirannelli locali. Meglio non far chiasso sulle loro «piccole guerre». E mandar soldati per dare loro una mano. Ovviamente si lotta «contro il terrorismo».