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 2021  settembre 16 Giovedì calendario

Intervista a Salvatore Esposito

La sua voce, inconfondibile. Un timbro che si identifica alla prima parola, ed anche se ora Gomorra finirà, sarà impossibile dividere Salvatore Esposito da Gennaro Savastano: «Ma a me fa piacere che la gente mi identifichi in lui. La fine della serie è un po’ come una bella storia d’amore: ti lascia grandi ricordi ed emozioni, ma anche tristezza di abbandonare qualcosa che è stato tuo per tanto tempo».
La quinta ed ultima stagione della serie tv che ha conquistato il mondo è alle porte, la chiacchierata con Salvatore avviene a Venezia, dov’era ospite del Festival per presentare il suo primo romanzo, Lo Sciamano. E dove ha tenuto una masterclass con il regista Mario Martone per gli studenti del Naba di Milano, un progetto promosso dal brand di tecnologia Xiaomi. Il che vuol dire che oggi per fare cinema basta anche solo un semplice (ma non troppo) smartphone: «Io la vedo come una grande opportunità. In fondo è un po’ come il giornalismo: non è importante come scrivi un articolo: con la penna, la macchina per scrivere, il computer. L’importante è cosa ci metti dentro, l’anima».
L’importante è che il cinema resti magia.
«E lo è, sempre. La cosa che conta è la qualità di un film, il racconto che porti sul grande schermo o in una serie Tv. Al giorno d’oggi i nuovi device sono una fortuna. Dopodiché il cinema deve restare cinema, il teatro deve rimanere teatro, le serie Tv devono rispettare la loro identità. I mezzi cambiano sono il modo di fruirne».
A proposito di serie Tv: finisce la Napoli di Gomorra.
«Gomorra non è Napoli. In realtà è una storia che parla delle periferie del mondo. Quelle di cui si parla solo durante le campagne elettorali. Poi nessuno fa mai nulla, ed è quello che raccontiamo».
Non c’è salvezza, allora. Né redenzione.
«Se si guarda in giro, tutte le periferie del mondo sono abbandonate a loro stesse: sono abbandonate dalle istituzioni, da tutti quelli che vanno a chiedere voti senza restituire poi nulla. E sono in mano alle delinquenze, il nome non cambia la sostanza. Noi le chiamiamo camorra, mafia, n’drangheta, da altre parti hanno altri nomi. Ma alla fine sono tutte uguali».
Dicono: Gomorra racconta il fascino del male.
«Non è quello. E comunque non sarebbe una novità: succedeva nella tragedia greca, succedeva con Shakespeare. Io penso che sia meglio dire che si tratta di un immedesimarsi in un racconto. Che poi lo faccia un criminale o un santo, poco importa: ti porta a conoscere qualcosa che magari non avevi considerato. E ti aiuta a pensare».
Ad esempio, conoscere la storia di Salvatore.
«Io l’ho voluta raccontare nel mio primo libro, Non volevo diventare un boss, proprio perché far conoscere vuol dire dare una possibilità a qualcuno di capire che esistono altro possibilità. Dalla periferia di Napoli a Hollywood la strada è lunga, ci vuole volontà e sacrificio. Ma non è impossibile essere qualcuno di diverso nella vita».
Qual è il segreto?
«Nel mio caso avere una famiglia forte alle spalle e una testa pensante. In assenza di queste condizioni purtroppo i ragazzi si perdono e la mano più vicina che trovano è la delinquenza e il denaro facile. Mi sono chiesto tante volte perché non si fa mai nulla: negligenza o volontà?».
Risposta?
«Non l’ho ancora trovata».
Cosa lascerà Genny a Salvatore, alla fine?
«La consapevolezza di aver partecipato a un progetto enorme, di aver avuto in mano uno dei personaggi più interessanti a livello seriale degli ultimi dieci anni. Gennaro mi ha dato la possibilità di arrivare a farmi conosce a livello internazionale. Ma soprattutto di farmi crescere come artista e come uomo».
E cosa resterà a Salvatore di Genny?
«Per entrare in certi personaggi bisogna farsi sempre delle domande: capire perché dice e fa certe cose, realmente il modo in cui pensa e come agisce. Si deve fare tuo il suo pensiero. È un po’ come fare psicanalisi. E aiuta a trovare te stesso».
«Con i registi italiani è più difficile». Davvero?
«È un dato di fatto. Io all’estero ho avuto la possibilità di lavorare in un film prodotti da Luc Besson. Di incontrare e parlare con Spielberg, Oliver Stone, Luca Guadagnino. Qui in Italia invece...».
Cosa manca?
«Vengo ancora percepito come un giovane attore italiano che ha avuto successo con una serie Tv, mentre in altri Paesi sono già considerato una giovane star internazionale. E questo mi dà accesso a percorsi diversi. Per dire: ho partecipato a progetti come Fargo, mentre qui sembra sempre che debba dimostrare ancora qualcosa. Come se non fosse mai abbastanza. Io so bene che non è abbastanza, che c’è sempre da imparare. Però...».
Però dopo l’attore e lo scrittore, manca l’Esposito regista. Arriverà?
«Non nego che un giorno potrei farlo. Però in questo momento sto imparando ancora a fare l’attore. E poi c’è già Marco...».
Marco D’Amore, Ciro, l’Immortale.
«Un amico, un grande, anche dietro la macchina da presa. Nell’ultima serie di Gomorra ha diretto diverse puntate, riesce sempre a toccare le corde giuste. È stato davvero bello lavorare con lui, speriamo mi ricapiti presto».