Corriere della Sera, 16 settembre 2021
Per un nuovo impianto nucleare servono 10 anni
Un’area anti-sismica. Vicina a corsi d’acqua. Perché ne serve tanta di disponibilità per raffreddare il ciclo del vapore. Sicuramente a bassa densità abitativa. Possibilmente – anche se i piani di realizzazione finirebbero per allungarsi a 15-20 anni – di quarta generazione. L’ultima frontiera tecnologica su cui sta investendo la ricerca sulle centrali a fissione, con il vantaggio di un uso migliore del combustibile nucleare e dunque, a parità di energia elettrica generata, con meno rifiuti radioattivi, da smaltire in un deposito geologico, ovvero in gallerie scavate per esempio nel granito a 4-500 metri di profondità. Poi più avanti ancora speriamo arrivino le centrali a fusione, il vero «game changer» che tutti aspettano.
L’identikit in Lombardia, anche se al momento non risultano progetti dettagliati, sembrerebbe rispondere all’area mantovana anche per la sua vicinanza al letto del Po. Un vecchio progetto a metà degli anni ‘70 caldeggiato dall’allora ministro democristiano dell’industria, Carlo Donat Cattin, l’aveva individuata come una delle aree prescelte.
La dichiarazione di ieri di Matteo Salvini («Che problema c’è se mettiamo una centrale nucleare in Lombardia a patto di vedere scendere i costi della bolletta») segnala che la Lega non ha alcuna pregiudiziale ideologica verso il nucleare. Nonostante due referendum, a distanza di anni l’uno dall’altro, abbiano sancito la diffidenza degli italiani dopo il disastro di Chernobyl e la grande paura del 2011 a Fukushima dopo il sisma che travolse il Giappone.
La Lombardia ha sempre avuto una certa familiarità col tema. Due delle quattro centrali della nostra dimenticata epoca nucleare sono ad un tiro di schioppo. Quelle di Trino Vercellese (Vercelli) e Caorso nel piacentino. Senza dimenticare gli impianti del ciclo del combustibile di Saluggia (Vercelli), l’impianto Fn di produzione del combustibile nucleare di Bosco Marengo (Alessandria) e il reattore di ricerca Ispra-1 a Varese. Quel che è certo, ragiona Giuseppe Zollino, professore di Tecnica ed Economia dell’energia e di Impianti nucleari all’Università di Padova, è che «per metterne in esercizio una occorrono almeno dieci anni, il tempo necessario per individuare l’area, acquisire tutte le autorizzazioni e realizzarla ex-novo». Zollino è un autorevole punto di osservazione. È stato presidente di Sogin, la società di Stato incaricata del decommissioning degli impianti nucleari e della messa in sicurezza dei rifiuti radioattivi, che finora però non è riuscita ad espletare il compito. Uno degli scandali italiani per i costi di gestione (nel 2020 il conto arrivò a quattro miliardi, con i lavori a circa il 25%, quando invece sarebbero dovuti bastarne 3,7 per completarli). Come dimenticare le rivolte a Scanzano Jonico in Basilicata, nel 2003, quando gli abitanti si mobilitarono contro la realizzazione di un deposito nazionale di scorie nucleari, mai portato a termine, per il quale l’Italia è da anni sotto procedura d’infrazione Ue. Nonostante i lunghi tempi di autorizzazione, che in Italia rischiano di avere contorni talmente nebulosi, Zollino ritiene non utile scartare l’opzione a priori. D’altronde una centrale nucleare è in grado di produrre energia elettrica per 8mila ore all’anno azzerando le emissioni. Un’energia verde che permetterebbe di avvicinare gli obiettivi di riduzione. «Considerando i costi medi di impianto dei Paesi dove attualmente vengono costruite centrali nucleari, il costo di generazione, per un esercizio di 8mila ore, è compreso tra i 5 e 6 centesimi di euro per kilowattora, leggermente più alto del fotovoltaico, ma col vantaggio della continuità di produzione rispetto alle rinnovabili che hanno invece bisogno di sistemi di accumulo», spiega.