Corriere della Sera, 16 settembre 2021
Massimo Galli va in pensione
L’annuncio arriva in tv. Per chi non lo ama, la cosa più naturale del mondo. «Il primo novembre vado in pensione», dice il professor Massimo Galli, ormai quasi ex primario di Malattie infettive al Sacco di Milano. Settant’anni compiuti (a luglio): tocca appendere il camice al chiodo.
La chiamano in tanti?
«Il telefono suona in continuazione, ma a 70 anni i professori universitari devono lasciare».
Sarebbe andato avanti?
«Non abbandono la trincea. Noi medici, assieme ai magistrati, siamo quel genere di persone che non vorrebbero mai andare. Però a Milano si dice: “Zucche e meloni alla loro stagione”. E dietro di me c’è chi merita di prendere questo posto».
Nell’era Covid pure i medici hanno i tifosi: lascia con più sostenitori o detrattori?
«Ho avuto un’infinità di dimostrazioni di affetto commoventi».
Non dà l’idea di uno dalla lacrima facile...
«Il mio mestiere impone di indossare la corazza. Ma questa pandemia lascia cicatrici. Ci sono lutti difficili da dimenticare».
È stato il momento più complicato della sua vita lavorativa?
«Sicuramente difficile, ma se rivivo la galleria dei ritratti dei lutti, mi tornano in mente tanti amici che ho visto morire di Aids. Gran parte della mia vita professionale l’ho passata a cercare una cura che frenasse quella malattia».
Il Covid avrà una data di scadenza?
«Penso che verrà derubricato. Anthony Fauci parla della prossima primavera. Ma serve non perdere il ritmo della campagna vaccinale. E da sotto questo aspetto devo dire che in Italia abbiamo fatto meglio di tanti altri».
Se lo aspettava?
«Non sono mai stato pessimista da questo punto di vista. Ero preoccupato dalle dosi a nostra disposizione».
Qual è una persona che l’ha colpita in questi mesi?
«Guido Bertolaso per quello che ha fatto in Lombardia: è difficile per un tecnico prestarsi alla politica».
Dal 2 novembre un primario pensionato come lei sarà ancora invitato in tv?
«La moda dei virologi mi fa arrabbiare. Sono, come molti colleghi, invitato in continuazione in tv. Ma il committente è la gente. Per quell’enorme necessità di informazione e di dibattito in materia. Non siamo noi a reclamare spazi. E comunque per il mio futuro spero di no, ma temo di sì».
Ma è vero che è sempre in tv?
«Guardate le mie pubblicazioni: sono più di 60 da inizio 2000. Agli ignoranti della politica che dicono più microscopi e meno tv, dico di avere più attenzioni al destino degli italiani e meno ricerca del consenso elettorale. Vado in tv, come sto in ospedale. Per fortuna dormo poco».
Chi sarà Massimo Galli da (ancora) più grande?
«Non smetterò di studiare. La mia passione per la storia delle epidemie mi porterà ad approfondire un grande libro. Quel faldone che raccoglie tutti i morti di Milano dal 1452. Un territorio inesplorato da digitalizzare. E poi voglio scrivere libri: ho anche un romanzo nel cassetto».
In 20 mesi di pandemia quale considera il suo più grande errore?
«Il 20 febbraio del 2020 ero speranzoso che l’avremmo scampata, che il virus avrebbe girato largo: ragionavo sui parametri della Sars. Mi guardavo allo specchio e mi chiedevo come avrei potuto chiedere alla politica di fermare tutto e adottare misure restrittive».
C’è altro che avrebbe fatto in modo diverso?
«A maggio gridavo che stavamo togliendo le restrizioni troppo presto. Penso che abbiamo aperto in una finestra fortunata. Ci è andata di lusso, se la variante Delta fosse arrivata un pelo prima sarebbe stato un altro disastro».
Con Alberto Zangrillo avete fatto pace?
«A luglio 2020 ero tra i pochi a parlare di un autunno difficile. Purtroppo i morti della seconda ondata mi hanno dato ragione. Quindi con lui non può finire a tarallucci e vino. Ma dividere tecnici e medici tra destra e sinistra è stata un’operazione ridicola».
Che eredità lascerà il Covid?
«Un’epidemia così mancava da un secolo: ha sottolineato la precarietà della vita umana. È come se la gente pensasse che con la tecnologia la medicina avrebbe potuto salvarci da tutto, che avremmo vissuto sempre a lungo felici e contenti. Invece i giovani d’oggi la racconteranno ai loro nipoti. Sperando che la memoria li aiuti a costruire un sistema sanitario con le spalle abbastanza larghe ad evitare che una cosa del genere si ripeta troppo presto».