il Fatto Quotidiano, 15 settembre 2021
Chiese, tra culto e mercato
A Firenze la pandemia ha svelato le implicazioni della metamorfosi delle chiese. Nel dicembre 2020 la basilica di Santa Maria Novella è chiusa: perché ormai completamente assimilata a un museo, e dunque sigillata ai visitatori dal Dpcm varato il 3 novembre dall’allora premier Giuseppe Conte. Il culto ha così luogo nella piccola Cappella della Pura, separata dal corpo della chiesa e con ingresso autonomo.
Secondo il Codice di Diritto canonico (canone 1214), “con il nome di chiesa si intende un edificio sacro destinato al culto divino, ove i fedeli abbiano il diritto di entrare per esercitare soprattutto pubblicamente tale culto”. Dunque, mentre scrivo, Santa Maria Novella non è, paradossalmente, una chiesa: perché ora non è destinata al culto divino, e perché già da un pezzo i fedeli non hanno il diritto di entrarvi per esercitare il culto privato. E bisogna sottolineare che “è costante prassi della Segnatura Apostolica considerare la chiusura di fatto al culto divino (in mancanza di una decisione formale) come equivalente a una sua riduzione a uso profano”.
Ma se Santa Maria Novella non è più una chiesa, cosa è? Un museo, risponderebbero in molti. È, questa, una risposta che si basa sull’opinione, oggi trionfante, che la caratteristica fondamentale del museo sia la presenza di una biglietteria: di un fatturato. È l’assunto su cui si è fondata l’intera riforma dei musei imposta da Dario Franceschini. Ma le chiese accessibili a pagamento non diventano centri di studio o ricerca, e assai di rado investono in una didattica di impronta scientifica e non confessionale. Ed è, d’altra parte, fin troppo evidente che non assumono nulla del carattere necessariamente laico dei musei della Repubblica: proprio a Santa Maria Novella è prevista, accanto alle normali gratuità, anche quella per i “membri di ordini o congregazioni religiose e clero diocesano”. Una discriminazione su base confessionale che, già grave in una chiesa di proprietà statale (la basilica appartiene al Fondo Edifici di Culto del ministero dell’Interno), diventerebbe lunare in qualunque museo.
Una chiesa a pagamento non è più una chiesa, ma non diventa per questo un museo. Da un punto di vista dello “sviluppo della cultura” è una perdita netta: ma lo è anche dal punto di vista religioso, nonostante i momenti riservati all’accesso per il culto. Perché “se i fedeli devono consultare complicati dépliant nei quali sono indicate le possibilità di orari o di giornate nei quali si può accedere alla chiesa, quello è proprio il momento nel quale gli interessati decidono di cambiare chiesa, e, in breve tempo, cancellano dalla propria mente e dalle proprie consuetudini di frequenza l’edificio di culto dove prima si recavano”.
È la mia stessa, personale esperienza. Per ragioni familiari sono legatissimo, fin dalla nascita, proprio a Santa Maria Novella: e ricordo distintamente il vero e proprio dolore con cui vissi la progressiva perdita della sua identità di chiesa. I momenti più surreali erano quelli che seguivano la fine della messa domenicale, quando trenta secondi dopo l’ite missa est i nuovi, solerti guardiani comunicavano che non ci si poteva trattenere a guardare le opere d’arte: bisognava semmai uscire come ‘fedeli’, e rientrare come ‘turisti’. Era un’ingenua, benintenzionata ma devastante, sconfessione dell’identità stessa di quel luogo unico al mondo. Non avevo mai saputo separare, dentro di me, la preghiera e la partecipazione alla liturgia dallo sguardo – ora penetrante ora distratto, fulmineo o indugiante – con cui carezzavo da anni la Trinità di Masaccio o il Crocifisso di Brunelleschi, le figure favolose di Filippino e quelle danzanti di Ghirlandaio, o ancora i raggi caldi del sole che brillava in mano a quel dotto Aquinate di cui avevo ricevuto in dono l’impegnativo nome di battesimo. Dove finiva dentro di me il ‘fedele’ e dove iniziava il bambino perso in quel caleidoscopio di forme e di colori, e poi, pian piano, lo storico dell’arte, e il fiorentino adulto, non del tutto inconsapevole di se stesso e della sua città? Ora – mi si diceva – queste cose andavano separate: e a separarle era un biglietto, una piccola somma di denaro. Ma, più ancora, una barriera, un filtro, un cartello. Era come mettere una sbarra in mezzo al salotto di casa. E pazienza se a dire il contrario non è ‘solo’ l’ovvia evidenza culturale, ma la stessa Conferenza Episcopale Italiana, che nell’Istruzione in materia amministrativa del 2005 ha scritto, con cristallina chiarezza, che “solo in linea teorica è possibile distinguere la dimensione culturale di una chiesa da quella religiosa, perché di fatto i due aspetti sono inseparabili”.
Le chiese, in Italia, sono sempre state la prosecuzione delle piazze con altri mezzi: luoghi pubblici, luoghi in cui entrare anche senza un perché. Perché fuori piove, o fa troppo caldo, per parlare con un amico in un giorno freddo, per rivedere un quadro o la curva di un arco che ci è caro. Luoghi intimi, spazi di respiro e riposo mentale per tutti noi che ci siamo cresciuti dentro: pezzi di una casa che ci ha dato forma, e che potrebbe continuare a darcela. Un’esperienza unica, questa comunione con le antiche chiese: un’esperienza che di fatto i nostri figli non potranno avere. (…)
La definitiva trasformazione di Santa Maria Novella in uno spazio turistico (in quel “semplice bene di consumo turistico” dal quale gli Orientamenti per la pastorale del turismo della Cei mettevano inutilmente in guardia nel 1992) non è frutto solo della secolarizzazione che avanza, o della nostra incapacità politica di finanziare il patrimonio culturale attraverso la fiscalità generale. C’è qualcosa di più profondo: che riguarda la nostra stessa idea di società, e di cultura. E non ce la possiamo cavare addossando la responsabilità di questa triste fine ai poveri frati domenicani: presenti a Santa Maria Novella in numeri sempre più esigui, e comprensibilmente non disposti ad abbandonare la loro vita religiosa per diventare i custodi di un ‘museo’. (…) Questa piccola simonia ha effetti profondi non solo sulla comunità cristiana, ma anche sul rapporto tra le antiche chiese e le comunità civili che, secoli fa, le hanno costruite. A cadere è quel rapporto sentimentale, quella relazione intima, che non era necessariamente fede e non era necessariamente amore per l’arte: ma era quello che portava i cittadini a varcare, qualche volta l’anno, la soglia delle loro chiese. I cittadini: questa terza categoria che non si esaurisce in quelle dei fedeli e dei turisti. Gli umani in quanto tali: il popolo elettivo delle antiche chiese italiane.