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 2021  settembre 15 Mercoledì calendario

Secondo Lancet la terza dose non serve

Sono 2,9 milioni gli israeliani vaccinati con tre dosi, 5,5 milioni con due dosi, e oltre 6 milioni con una. Sono 10.774 i nuovi casi in Israele ieri, un dato tra i più alti finora registrati, con un tasso di positività del 6,09%, su 189 mila tamponi. I pazienti in condizioni critiche sono 673 (e oltre 82 mila attualmente positivi). I decessi registrati dal 6 al 13 settembre sono stati 31 con tre dosi, 56 con due dosi, e 95 non-vaccinati. Israele ha tassi di vaccinazione tra i più alti al mondo: tra gli 80-89 anni l’87,2% è vaccinato con due dosi, il 75,3% con 3 dosi; tra i 70-79 anni l’87,5% ha fatto due dosi, il 77,9% tre; tra i 60-69 anni la media si alta a 87,5% con due dosi, mentre sono il 69,5% con tre dosi; per i 50-59 anni siamo a 83,5% due dosi, 55,9% tre dosi; nella fascia 40-49 anni l’81,4% con due dosi, il 45% tre dosi; tra 30-39 il 78,3% ha fatto due dosi, il 37,1% tre dosi; 20-29 anni, 72,6% con due dosi, 24,6% con tre dosi; tra i 16-19 anni, ben il 70,8% ha già fatto due dosi, e il 16,1% ne ha fatte tre.
E si parla già di quarta dose, a esporsi per primo è stato Salman Zarka, capo dell’Israel Shield, programma ufficiale del ministero della Salute su Covid-19. Israele corre, anche se i dati attuali sono parziali, tant’è che Rochelle Walensky, direttrice dei Centers for Disease Control and Prevention degli Stati Uniti, ha ribadito in diverse occasioni che non ci sono ancora dati che dimostrino che un terzo richiamo dei vaccini – Moderna o Pfizer – aumenti la protezione contro l’infezione. Ha sottolineato, invece, la speranza che una terza dose riduca la trasmissione, e quindi anche le infezioni. In un recente view point pubblicato su The Lancet, il vicedirettore dell’ufficio responsabile della Ricerca e revisione sui vaccini della Fda, Philip Krause, ha espresso un punto di vista diverso rispetto alle istituzioni israeliane. “Sebbene l’idea di ridurre ulteriormente il numero di casi di Covid-19 migliorando l’immunità nelle persone vaccinate sia allettante, qualsiasi decisione in tal senso dovrebbe essere basata sull’evidenza e considerare i benefici e i rischi per gli individui e la società: l’evidenza attuale, non sembra mostrare la necessità di una terza dose nella popolazione generale”. Una delle motivazioni principali è che potrebbe persistere “la memoria immunitaria, l’immunità cellulo-mediata, che generalmente sono di durata più lunga”, ovvero le cellule B e T Killer che non vengono però attualmente “misurate” né nei guariti né nei vaccinati. Inoltre, “potrebbero esserci dei rischi se i richiami vengono ampiamente introdotti troppo presto o troppo frequentemente, specialmente con vaccini che possono avere effetti collaterali immuno-mediati (come la miocardite, che è più comune dopo la seconda dose di alcuni vaccini mRna, o la sindrome di Guillain-Barre, che è stata associata a vaccini con vettore di adenovirus). Se un potenziamento non necessario provoca reazioni avverse significative, potrebbero esserci implicazioni per l’accettazione del vaccino che vanno oltre i vaccini anti-Covid. Pertanto, un rafforzamento vaccinale dovrebbe essere intrapreso solo se vi sono prove evidenti che sia appropriato”. Infine, il viewpoint si conclude con una considerazione inusuale, “sarà necessario un esame attento e pubblico dei dati in evoluzione per garantire che le decisioni sul potenziamento siano informate da una scienza affidabile più che dalla politica”. La chiusa è una critica diretta all’ingerenza della politica. Pochi giorni prima della pubblicazione su The Lancet, sia il vicedirettore, Philip Krause, che la direttrice, Marion Gruber – dell’ufficio più importante della Fda in questa fase pandemica – hanno deciso di lasciare l’agenzia il prossimo mese, con una lettera congiunta. Ufficialmente i motivi sono la pensione (la direttrice) e non precisato (il vicedirettore). Tutto questo, proprio mentre si stavano analizzando i dati sulla terza dose e le vaccinazioni pediatriche, stando a alla ricostruzione di Cnn Healt. È stato pubblicato uno studio dell’Università della California, ripreso dal Guardian, in cui si arriva alla conclusione che i ragazzi tra i 12 e i 17 anni sono più a rischio di effetti collaterali dopo il vaccino rispetto al Covid.