Corriere della Sera, 15 settembre 2021
Walter Zenga ha scritto un’autobiografia
Walter Zenga, che cosa sarebbe disposto a fare pur di allenare l’Inter?
«Tante cose. Ma so che c’è un percorso, mica facile. Però l’Inter è la mia casa, mi sento una bandiera nerazzurra. Ventidue anni con quella maglia non si cancellano. Nonostante la mia irruenza».
Troppi addii burrascosi?
«Sì, ho sbagliato almeno due volte, come allenatore: quella volta che me ne sono andato dal Catania e quando ho detto addio alla Stella Rossa di Belgrado».
E perché lo ha fatto?
«Per soldi. Maledetti soldi. Ho scelto di rompere con delle squadre perché dall’altra parte mi offrivano di più, ma oggi riconosco che ho sbagliato. Avrei dovuto restare, maturare, crescere, magari sbagliare anche, come allenatore e come uomo».
Tre mogli, cinque figli, burrasche varie. La sua autobiografia, che esce domani, sembra un romanzo.
«Be’ ma allora le racconto la follia delle follie. Con Elvira (Carfagna, la prima moglie, ndr) ci siamo sposati a vent’anni, troppo giovani, lo so bene. Poi ci separiamo, senza figli. Dopo sei mesi ci rimettiamo insieme, annulliamo la separazione e facciamo un figlio. Qualche mese dopo ci separiamo definitivamente».
Lei è stato figlio di genitori separati, all’epoca una condizione inusuale.
«Sì, e poi c’è la ferita ancora aperta con mio padre Alfonso. Non ci siamo parlati per anni, troppe incomprensioni, troppa distanza. Io ho giocato agli Europei e ai Mondiali e lui non si è nemmeno fatto sentire. Poi lui si è ammalato. Io ero a Bucarest, mi sono precipitato a Milano. È stato allora, qualche giorno prima di morire, che mi ha detto “Ti voglio bene” per la prima volta».
Come lo ha fatto?
«Mi ha consegnato una lettera. Leggendola, non credevo ai miei occhi: siamo stati lontani per una vita intera e in quelle righe, mentre si preparava a salutarmi per sempre, mi diceva che lui mi era sempre stato accanto, che aveva seguito passo dopo passo la mia carriera, che si era appuntato successi e critiche, che era fiero di me e che mi voleva bene. Ero distrutto».
Come ha vissuto le parole che i suoi figli Nicolò e Andrea le hanno rivolto in tv e sui social, accusandola di essere stato poco presente?
«In modo devastante. Però li capisco e dico questo: quando ci si separa non ci sono vincitori né vinti, al massimo si pareggia la sconfitta. Il mio lavoro mi ha portato in giro per il mondo. Non sempre ho potuto essere accanto a loro, ma ho preso un aereo per vederli ogni volta che ho potuto. Guardi il mio braccio: mi sono tatuato i nomi dei figli».
Ma con Andrea e Nicolò vi siete chiariti?
«Sì, ci siamo parlati a lungo e ci siamo visti».
I due più piccoli, Samira e Walter jr sono a Dubai con sua moglie Raluca Rebedea.
«Quando mi chiamarono ad allenare il Cagliari feci quattro giorni di lavoro e poi il mondo si chiuse per la pandemia. Da marzo ad agosto ho potuto vedere i miei bambini solo per sette giorni e sa come ho fatto? Ho preso un aereo privato, sono atterrato a Dubai, mi hanno chiuso in un albergo per aspettare i risultati del test anti-Covid, quindi sono potuto andare da loro. Qualche giorno e poi di nuovo in Italia, aereo privato, eccetera. Capisce perché quando mi guardo allo specchio e mi domando se sono stato un buon padre la risposta che mi do ogni volta è sempre “sì”?».
E in campo, le «pugnalate» più feroci?
«Be’, di certo quando l’Inter decise per lo scambio con Pagliuca. Non è che io sia contrario ad allontanare una bandiera, per carità. Però i termini devono essere chiari. Non una cosa del tipo “Vediamo se va in porto, sennò resti”. No, quello no. Me ne andai, ma dissi “Tornerò”».
Grandi amicizie?
«Luca Vialli prima di tutto, per me un fratello. Pensi che quando giocavamo nell’under 21 lui aveva una fidanzata di Cremona che gli firmava le giustificazioni a scuola. E poi Mancini, con quel piglio presidentesco. Ma potrei dirle Bergomi, Gullit, Sinisa».
Com’è Mihajlovic?
«Veste male. Ma non glielo dica, sennò s’incazza. Anzi, gli mando un messaggio qui: Sinisa, ti voglio bene».
Tanti amici milanisti.
«Eccome. Ma io, Billy Costacurta, Paolo Maldini e tanti altri siamo cresciuti assieme. Giochiamo da quando eravamo bambini. C’era e c’è un grandissimo rispetto tra di noi e sa perché? Perché ci prendevamo le colpe. Una volta l’interista o il milanista allo stadio sapevano bene chi insultare. Oggi il tifoso è disorientato. Certo, te la puoi prendere con una stella di prima categoria, ma la bandiera di una squadra è altra cosa».
«There is one ball», c’è un solo pallone, dice il grande Giovanni Trapattoni.
«Il Trap è un gigante. Alla vigilia delle partite, alle dieci di sera faceva i blitz e veniva a bussare in camera: “Tutto bene ragazzi?”. Io però ho vissuto anche l’era Bearzot».
E com’era «il vecio»?
«Lo innervosiva tutto quello che era raduno, vita del villaggio, controlli. Lui era alla vecchia maniera: ritiro, albergo, allenamento rigoroso».
Ha mai giocato una partita con la morte nel cuore?
«Be’, ci può essere un ragazzo triste dietro al portiere che vince la Coppa Uefa contro il Salisburgo, perché sa bene che dovrà lasciare la sua amata Inter. Eccomi. Il calcio per me rimane la vita stessa».