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 2021  settembre 15 Mercoledì calendario

La Norvegia e le sorprese europee a sinistra

Miracoli e sorprese della sinistra europea: si riparte da Støre. Sì, da Jonas Gahr Støre, il miliardario laburista, già braccio destro dell’ex premier e attuale segretario della Nato Jens Stoltenberg, che ha sbaragliato i conservatori di Erna Solberg, al potere in Norvegia da otto anni. Støre ha ottenuto una vittoria ben più ampia di quella che gli assegnavano le rilevazioni demoscopiche. Quasi sicuramente avrà in Parlamento la maggioranza assoluta dei seggi. Così anche se porterà con sé al governo altri partiti desiderosi di coalizzarsi con lui, non dovrà subire i loro condizionamenti. Deciderà da solo se, e in che misura, ridurre le trivellazioni petrolifere contestate dai Verdi e da altre formazioni minori. Disporrà per una stagione di ampi poteri.
Stessa disposizione d’animo nei confronti dei soci minori avrà il socialdemocratico Olaf Scholz al quale i sondaggi attribuiscono un analogo successo in Germania dove si voterà tra dieci giorni. Nel corso della campagna elettorale Scholz non ha voluto prendere impegni e ha evitato di ribadire – come la Spd ha sempre fatto – che non si alleerà con gli scissionisti di Die Linke. Ma è per lui un punto fermo non voler sentire neanche parlare di uscita dalla Nato o di altri condizionamenti che i piccoli potenziali alleati potrebbero volergli imporre.

E se non ha chiuso del tutto la porta all’estrema sinistra, lo ha fatto (oltre che per scaramanzia) per aver maggior potere contrattuale il giorno in cui, in caso di vittoria, dovrà sedersi al tavolo con tutti i potenziali alleati.
In ogni caso le dimensioni della vittoria di Støre hanno riacceso le speranze dell’intera sinistra europea che da anni sembrava aver smarrito persino il senso della propria esistenza. Curioso che questa riproposizione del sogno avvenga per merito di uomini d’ordine e di governo, così diversi dai leader radicali e romantici alla Corbyn. Verrà il tempo – nel caso siano confermate anche le previsioni che riguardano Scholz – di riflettere sul nesso che sicuramente c’è, tra questo fondamentale cambiamento e la stagione non ancora conclusa del Covid.
Una terza piccola, piccolissima, conferma della tendenza di cui ci occupiamo potrebbe venire qui in Italia dalle elezioni amministrative che si terranno in ottobre. I sondaggi – che pure, nel caso di consultazioni politiche, assegnano un risultato trionfale al centrodestra – prevedono, invece, una netta vittoria del centrosinistra, quantomeno nelle città più importanti. Se ciò si verificherà, Forza Italia, Lega e Fratelli d’Italia dovranno prendere atto una volta per tutte che l’amalgama nel loro campo non sta funzionando e da tempo non ha funzionato. Che i loro elettorati non sono disponibili a seguire le indicazioni dei vertici come erano stati invece in una lunga stagione di elezioni regionali conclusasi, alla vigilia della pandemia, con la vittoria di Bonaccini in Emilia-Romagna. Che non esiste sintonia tra la destra italiana e quel che confusamente si muove negli schieramenti europei con i quali le varie formazioni del fronte conservatore sono disordinatamente imparentati. E che paradossalmente il partito di Enrico Letta dà prova di maggiore vitalità. Un Pd che pure è appesantito da un rapporto sempre più organico con un M5S non al massimo dei suoi splendori. Un Pd costretto a promettere l’imminente approvazione di leggi su migranti e sessualità (annunci che hanno provocato perplessità, quantomeno per la tempistica, non solo a Vincenzo De Luca ma persino a Romano Prodi). Il Pd, obbligato a cimentarsi con questo genere di salti mortali, appare però, nel momento della verità, più di tutti gli altri in sintonia con il governo guidato da Mario Draghi.
È passato inosservato che Letta ha delicatamente portato i Cinque stelle a contenere la turbolenza nei confronti dell’esecutivo. In più li ha indotti ad accettare qualcosa che ha dell’incredibile, cioè che il composito schieramento di sinistra allargata debba votare, al secondo turno, candidati del Pd, candidati della cosiddetta società civile scelti da Pd assieme al M5S, ma neanche uno che provenga direttamente dal movimento che fu di Beppe Grillo. Quantomeno per quel che riguarda i centri più importanti. Grazie anche al fondamentale aiuto di Giuseppe Conte, l’integrazione tra Pd e M5S sta avvenendo in modalità per certi versi simili a quelle con cui fu costruito il Fronte popolare nel 1948. Allo stato degli atti è lecito ipotizzare che alle prossime elezioni politiche nei seggi del maggioritario gli eletti pentastellati subiranno la sorte che toccò ai poveri socialisti il 18 aprile di settantatré anni fa. Saranno cioè ridimensionati a una quota di consistente testimonianza. E scelti nella logica della fedeltà all’impresa comune.
Con la vittoria (ipotizzata, ribadiamolo, dai sondaggi) a Roma, Milano, Bologna, Napoli e molti altri comuni, Enrico Letta potrebbe mettere un piede sul piedistallo su cui è appena salito Støre e su cui forse si eleverà Scholz. E lo farebbe in un momento assai particolare nel quale il suo partito non dava segni di ripresa rispetto ai risultati delle più recenti elezioni. Per di più in tempi in cui la destra sembrava esser stata l’unica beneficiaria dell’emorragia di voti dei Cinque Stelle. La tecnica è stata quella di impegnarsi in battaglie identitarie di testimonianza che non mettessero in difficoltà il governo. E di presentarsi, anzi, come difensore di ministri – ad esempio la Lamorgese – messi nel mirino da Salvini. Letta è stato sorprendentemente capace persino di lusingare e corteggiare Giorgia Meloni pur di isolare e mettere in difficoltà il leader della Lega (e con lui Matteo Renzi). Si può ipotizzare che il segretario del Pd sia stato fin qui un po’ sottovalutato.