Corriere della Sera, 14 settembre 2021
A Kandahar, la capitale talebana
«Con i talebani ha vinto l’Islam, quello vero dei pashtun. Chiedete, chiedete pure alla nostra gente qui per le strade. Troverete che oltre l’80% è soddisfatta della situazione». S’illumina d’un sorriso sincero il volto barbuto di Jamalhuddin Dost, cartolaio 45enne la cui bottega s’affaccia sulla Ghazi Amanullah Khan, la via principale di Kandahar, quella che da Piazza dei Martiri (difficile non trovarne una con questo nome nelle città della regione) imbocca il deserto che porta verso Herat. I suoi ragionamenti sono semplici, primitivi, ma non è difficile capire che nella città-culla dei talebani hanno presa immediata. «Non avevo neppure 14 anni nel 1994, quando il Mullah Omar fondò il movimento dei talib, gli studenti reclutati nelle scuole coraniche. Frequentavo la madrassa (scuola religiosa) Imam Abu Hanifah. Molti ragazzi più grandi lasciarono lo studio del Corano per prendere il fucile e unirsi alla nostra guerra di liberazione. Il Mullah Omar predicava nelle nostre classi. E in quelle della madrassa vicina, la Hashrafia. I miei genitori non mi lasciarono partire. Il Kalashnikov imparai ad utilizzarlo più tardi. Ma ovvio che i talebani erano e sono popolarissimi, allora come oggi. Anche se adesso sono cambiati. Però, occorre dare loro tempo. Devono imparare a governare. Tra sei mesi anche in Occidente capirete che sono diversi da quelli degli anni Novanta».
Fuori fa caldo, un’afa molto più oppressiva che non a Kabul. Il traffico è scorrevole. Non ci sono posti di blocco. Quasi non si vedono pattuglie armate. In centro troviamo pochi segni della battaglia del 13 agosto, quando le forze di sicurezza dell’ex governo Ghani si arresero in massa. «Qui i talebani sono di casa. Lo sono sempre stati, anche in presenza del fior fiore delle truppe americane e britanniche. Le donne non si sono mai tolte il burqa e certo non nei villaggi pashtun della regione. Oggi sono tranquilli. A Kandahar godono del monopolio assoluto del potere, non hanno bisogno di pattuglie», spiega nel suo panificio il 26enne Mohammad Haider.
In questa città, dove tre secoli fa proprio le dinastie pashtun locali inventarono l’Afghanistan moderno, siamo arrivati ieri a metà giornata con un velivolo di linea Ariana, l’unica compagnia nazionale che ha ripreso quotidianamente le tre tratte interne principali dalla capitale per Herat, Mazar-i-Sharif e Kandahar. Sul volo c’era il nuovo presidente talebano della banca centrale. Dietro di lui, in business class, anche Wakil Ahmed Muttawakil, il ministro degli Esteri del primo governo talebano, che nel 1999 aveva lanciato un appello forte al mondo: «Se non ci riconoscete, tra noi vinceranno le correnti estremiste favorevoli ad Al Qaeda e sarà peggio per tutti». Non fu ascoltato. Pochi mesi dopo venivano fatti saltare in aria i Buddha di Bamiyan, seguirono gli attentati dell’11 settembre 2001 e tutto il resto. Sono tutti esponenti delle correnti legate al Mullah Abdul Ghani Baradar, il vicepremier pragmatico che solo tre settimane fa aveva parlato della necessità di un «governo inclusivo» per garantire la pacificazione. Pare abbia perso, il nuovo gabinetto riflette le posizioni intransigenti del clan Haqqani. Addirittura, sui social rimbalzano messaggi che danno Baradar per morto o ferito grave in un diverbio con gli avversari politici. I talebani di Kandahar fanno muro, sono nazionalisti, si preoccupano di rimettere in moto il sistema Paese, non apprezzano affatto i fanatici pan-islamici. «Isis qui non osa farsi vedere, verrebbe distrutto», dicono. Però fanno del loro meglio per occultare gli scontri interni.
«Sia ben chiaro che Baradar sta benissimo. Siete voi giornalisti occidentali a esagerare le diatribe tra i nostri leader», reagisce Hafez-Nurahmad Said, portavoce della municipalità. A suo dire, i problemi ora sono altri. «Dobbiamo nutrire una popolazione impoverita e affamata. La mancanza di piogge e il riscaldamento climatico hanno prosciugato il bacino della diga di Kajakai, che forniva energia elettrica al sud del Paese. Necessitiamo di 38.000 litri di gasolio al giorno per fare funzionare i generatori pubblici». Le sue parole sono confermate dall’Onu, che mette in allarme sulla crisi umanitaria. L’Unicef parla di oltre un milione di bambini a rischio di vita per malnutrizione. Degli oltre 600.000 sfollati interni circa metà hanno meno di 16 anni. E molti minorenni vengono reclutati per combattere, spesso dai talebani.