la Repubblica, 14 settembre 2021
Nel risiko delle materie prime l’Europa si scopre fragile
Una “tempesta perfetta” spinge i prezzi dell’energia al rialzo nel mondo intero. È causata da elementi climatici imprevisti: una lunga bonaccia sul Mare del Nord; gli uragani tropicali che perturbano l’industria petrolifera nel Golfo del Messico. È rafforzata da un evento positivo: malgrado la variante Delta, grazie alle vaccinazioni la ripresa economica globale procede, e dunque crescono i consumi energetici. L’utopia di una transizione rapida verso un pianeta a “emissioni zero” si scontra con i limiti delle energie rinnovabili e un ritardo nel progresso tecnologico. Le aree che consumano più di quanto producano energia – come Europa e Cina – sono il lato debole nel nuovo “risiko energetico” che mescola economia, finanza, e grandi strategie geopolitiche. America e Russia sono sul fronte dei vincitori, con compagni di strada sorprendenti. L’uscita dal tunnel della pandemia riserva anche questa novità. La Federal Reserve, la Banca centrale europea e quella cinese: tutte concordano sul fatto che l’inflazione è rinata in buona parte perché sospinta da questo mini-shock energetico.
Tra gli elementi scatenanti di questa crisi, uno è quasi banale. Il vento ha soffiato molto meno del solito al largo delle coste del Regno Unito. È lì che si concentra la massima capacità eolica europea. Questo ci ricorda un limite delle fonti rinnovabili, la cui disponibilità non è costante: il vento può fare i capricci, il sole non alimenta le centrali quando è notte o il cielo si copre di nuvole. La capacità di stoccaggio di queste energie è ancora troppo limitata. Quando sono inferiori ai nostri bisogni accade quel che è successo negli ultimi mesi: vengono riattivate centrali a gas e perfino a carbone. L’aumento della domanda, le penurie di produzione, fanno schizzare al cielo i prezzi e prima o poi l’effetto si trasmette nelle bollette degli utenti. I vari mercati energetici sono vasi comunicanti: se s’inaridisce l’offerta in uno dei comparti tutti gli altri diventano più cari.
In questa congiuntura gli Stati Uniti sono tra i favoriti: hanno raggiunto da anni una semi-autosufficienza energetica grazie alle grandi risorse del loro sottosuolo. Di recente hanno ripreso a esportare gas liquefatto anche verso l’Europa, e una delle imprese esportatrici, la Cheniere Energy, ha visto aumentare del 47% il suo valore azionario dall’inizio dell’anno.
Il consumo mondiale di petrolio, secondo le proiezioni del cartello Opec che riunisce molti produttori, nel 2022 sorpasserà i livelli raggiunti nell’anno 2019, cioè pre-covid. Questo pone una seria ipoteca sugli impegni solenni proclamati da molti governi, di un azzeramento delle emissioni carboniche a medio termine. Si capisce meglio perché Xi Jinping non abbia mai voluto legarsi le mani con impegni di quel tipo. Si interpreta in modo diverso anche l’ultimo regalo che Joe Biden fece ad Angela Merkel prima dell’addio della cancelliera, e cioè la levata di alcune sanzioni americane contro il gasdotto Nord Stream 2. La Germania, con o senza i Verdi al governo, avrà ancora bisogno di gas russo, e perfino di carbone polacco, per qualche tempo: Biden ha adottato una “realpolitik energetica”, prendendo atto della fragilità di Berlino. Vladimir Putin da parte sua ha curato con abilità i buoni rapporti fra Mosca e l’Opec. Rinasce anche un dibattito sul nucleare, accantonato in maniera improvvida per la pressione delle opinioni pubbliche in Occidente e in Giappone, mentre la Cina lo considera come una delle fonti rinnovabili su cui scommettere. Se l’Europa rivela le sue fragilità strutturali, anche la Cina è a metà del guado: da una parte spinge sull’acceleratore dell’innovazione tecnologica e punta al predominio globale nell’auto elettrica; dall’altra deve continuare a ingoiare petrolio e carbone più di ogni altra nazione al mondo.
Nel risiko geopolitico dell’energia tornano in primo piano attori che controllano snodi nevralgici per la distribuzione delle vecchie e odiate energie fossili. Alcune Vie della Seta su cui avanzano gli investimenti cinesi sono corridoi terrestri che attraverso l’Asia centrale cercano di soddisfare la fame carbonica di Pechino, allentando la dipendenza dalle rotte marittime ancora presidiate da flotte militari Usa (Golfo Persico, Oceano Indiano, Stretto di Malacca). Ci sono subpotenze regionali molto attive nel disegnare e difendere con la forza militare i grandi snodi distributivi: insieme alle potenze del Golfo appaiono in questo club anche la Turchia e Israele. La rivoluzione verde dell’Europa è un progetto che poggia ancora su basi fragili. Una notizia eccellente come la ripresa economica è un brutale richiamo alla realtà dell’oggi: per riaprire le fabbriche ci vuole più energia subito, non domani. A Bruxelles come a Berlino, Londra Parigi e Roma, c’è ancora un deficit d’innovazione tecnologica, l’unico ingrediente che può far cambiare le regole del vecchio risiko. I prezzi che impazziscono sono la fotografia istantanea di queste strozzature.