La Stampa, 14 settembre 2021
Il climatologo Dante aveva già capito tutto
Il diabolico traghettatore Caronte non lasciava troppe speranze alle povere anime dei dannati: «I’ vegno per menarvi a l’altra riva / ne le tenebre eterne, in caldo e ’n gelo». L’Inferno nel quale Dante era penetrato da poco era dunque un sotto mondo torrido come la canicola e gelido come il ghiaccio. Buio senza fine: «Non isperate mai veder lo cielo». Percosso da scosse improvvise: la terra «tremò sì forte, che de lo spavento /la mente di sudore ancor si bagna».
Sudori freddi, sudori caldi. Il terremoto. Fenomeni estremi in un’epoca di transizione climatica, siccità ripetute che causavano carestie spietate, inondazioni improvvise e frequenti, raccolti devastati, una mini glaciazione in arrivo. Così si viveva a cavallo del secolo nel quale scriveva Dante (1265-1321) quando gli studi sul clima non esistevano e dunque tutto veniva ricondotto al volere di Dio, l’Onnipotente che disponeva di caldo e freddo, di pioggia e terremoti, per dispensare punizioni e regalare come ricompense i piaceri della bella stagione nel Paradiso, luogo dell’armonia climatica per eccellenza, dove «le cose tutte quante / hanno ordine tra loro, e questo è forma / che l’universo a Dio fa simigliante».
Un gruppo di studiosi anglosassoni ha chiamato quella congiuntura climatica all’inizio del XIV secolo «anomalia dantesca» (Dantean Anomaly). Senza questa convergenza di disastri ambientali in quel passaggio di secolo, avremmo avuto forse una Divina Commedia diversa. Chissà. Anche di questo si parla oggi, nel settecentenario della morte del poeta, all’Istituto Italiano di Cultura di Parigi, in una tavola rotonda su «Dante e le forme dell’acqua», con letterati e scienziati, tra i quali l’antichista italiana bestseller Andrea Marcolongo e il glaciologo francese Jean Jouzel, vice presidente del Giec (una specie di Onu del clima). Con loro il direttore dell’Istituto Diego Marani e l’ex ministro francese dell’Ambiente Brice Lalonde.
Per Monica Cardillo, giurista, maître des conférences, e anima del convegno, un parallelo tra i tempi di Dante e quelli di oggi non è aneddotico: «Nella Commedia la natura ha una dimensione simbolica e divina, le afflizioni meteorologiche allora erano considerate la giusta punizione per i peccati anche se non era così; oggi invece i disastri climatici sono effettivamente le conseguenze delle cattive azioni collettive nell’ambiente». Dalla morale alla scienza, anche se il parallelo finisce qui perché i peccati di allora erano a loro modo «ecologici», non modificavano l’ambiente, mentre quelli di adesso sono di sistema e molti di questi non rimediabili. Tutte le legislazioni hanno istituito reati ambientali e prevedono sanzioni a protezione dell’ambiente. In Nuova Zelanda si è andati oltre, ai fiumi è stata riconosciuta personalità giuridica e le comunità locali potranno intervenire in giudizio in difesa della loro acqua: «I comportamenti individuali e collettivi sono soggetti a un giudizio», spiega Monica Cardillo. «E siamo tutti personalmente responsabili».
Insomma, è sempre possibile una lettura attualizzata di Dante, è la magia immortale della Divina Commedia: se Shoah e Gulag sono stati l’inferno del Novecento, un’estate come quest’ultima, con trombe d’aria improvvise, inondazioni e temperature vicine ai 50 gradi anche alle nostre latitudini, ci prospetta un futuro prossimo abbastanza infernale. I meteorologi annunciano l’inverno più rigido degli ultimi 60 anni, ma intanto a luglio un’imprevista ondata di maltempo ha devastato Germania e Belgio con oltre 130 morti. E pochi giorni fa New York è finita sotto l’acqua come non era mai accaduto.
«Rileggendo la Divina Commedia», ci dice il climatologo Jean Jouzel, «mi immagino Dante come una persona estremamente sensibile al clima. Ne parla ripetutamente, era un grande osservatore, la struttura stessa del suo poema è vicina a un’immagine del sistema ambientale. Nell’Inferno ci sono le glaciazioni ed è molto interessante perché la conoscenza di queste alternanze è stata messa in evidenza solo nel XIX secolo. Lui certamente sapeva dell’esistenza delle calotte di ghiaccio al Nord, conosceva bene il ciclo delle acque».
Nella Commedia il poeta cita i nomi di quasi tutti i fiumi italiani e di molti francesi, evoca il Danubio e il Don (chiamati «Danoia» e «Tanai») come riferimenti simbolici per dire che nemmeno là il ghiaccio è duro quanto a Pietrapiana (Alpi Apuane) dov’era «un lago che per gelo / avea di vetro e non d’acqua sembiante». E le ombre dolenti dei traditori (siamo nel XXXII canto dell’Inferno) stavano là «nella ghiaccia» sbattendo i denti come sbattono il becco le cicogne.
Per il climatologo Jean Jouzel non sono allegorie fantastiche ma il riflesso dei fenomeni climatici estremi che Dante ha vissuto. E che allora avevano conseguenze sulla vita della gente ancora più gravi di quelle di oggi: «Per noi è difficile immaginare le difficoltà di fronte ai repentini cambi di temperatura, non c’era preparazione, ogni volta era la stupefazione e la paura. Non c’erano ovviamente prevenzione né mezzi per affrontare i disastri, le inondazioni mietevano vittime, distruggevano i raccolti, provocavano carestie e dunque fame e malattie». L’ambiente ostile era vissuto come una punizione divina e l’approdo al Paradiso si compie come l’impresa degli Argonauti alla fine di un viaggio per mari e per acque, anzi «per lo gran mar de l’essere».