La Stampa, 14 settembre 2021
De Niro: «Così cedetti a Sergio Leone»
Robert De Niro è seduto, quasi disteso sul divano della casa di campagna, Upstate New York. Quando parla con me, l’11 dicembre 2020, ha 77 anni, capelli lunghi e bianchi, barba lunga. Sospetto che abbia finalmente accettato di incontrarmi su Zoom per vincere la noia del lockdown. Dietro le spalle, ha una grande finestra con vista – immagino – sui prati e sulle colline di Woodstock, o giù di lì. «Quando guido verso New York e arrivo sulla strada che gira intorno a Paramus, New Jersey, vedo lo skyline della città e penso sempre a lui, Sergio Leone. Ecco dove avrebbe potuto girare quella scena che aveva in mente, con Noodles che torna nel Lower East Side dopo trentacinque anni. Sarebbe stata perfetta da lì, anche se la vista è cambiata da allora. Invece l’abbiamo fatta in studio, nella stazione coperta di graffiti e pubblicità. Fu un ripiego. Sergio sarebbe andato ancora avanti a girare, forse odiava l’idea di dover a un certo punto finire il film».
Alla prima proposta di Leone, lui aveva detto no: «Ci siamo visti in una stanza d’hotel, a New York. Non ricordo quando, e non ricordo neppure se quel giorno ci fosse anche Gérard Depardieu, ma ricordo bene che Sergio disse che avrebbe voluto noi due, che avevamo già fatto insieme Novecento. Non conoscevo Sergio e neppure i suoi film, sapevo che venivano chiamati spaghetti western. Quei film sono ciò che sono, non c’è niente di sbagliato in loro, semplicemente non li avevo visti». A questo punto, gli ho detto: c’è stato un momento in cui l’Italia faceva il miglior cinema al mondo. E lui: «È vero». Io: Fellini, Antonioni... Lui: «Sì, Fellini, Antonioni, ma anche altri. Il cinema italiano era grande, lo è ancora, ma allora io ero un giovane attore, uno che voleva fare l’attore, mi importava più degli attori che dei registi. Per me sono stati importantissimi tutti i film con Mastroianni, I soliti ignoti, chi era il regista? [Monicelli, non sono stato pronto a rispondere perché ha citato il titolo in inglese, Big Deal on Madonna Street]. Pietro Germi o Lattuada, chi ha fatto Mafioso?. E poi Pasolini, naturalmente. Chi ha fatto Rocco e i suoi fratelli? Visconti, certo». Ho cercato di tornare con la memoria a quel 1981. Chi è in quel momento Robert De Niro? Uno che ha vinto due Oscar, il primo dei quali per Il Padrino-Parte II, il secondo come protagonista per Toro scatenato, e che ha fatto anche Mean Streets, New York, New York e Taxi driver con Scorsese, Novecento con Bertolucci, Il cacciatore con l’allora sconosciuto Cimino, totalizzando altre due nomination all’Oscar e soprattutto affermandosi come unico erede del suo modello e mentore, Marlon Brando. Dopo Toro scatenato, Scorsese vorrebbe fare L’ultima tentazione di Cristo, ma De Niro ha acquistato i diritti di un copione scritto dal critico Paul D. Zimmerman, la storia di un celebre conduttore tv e di un suo stalker, e grazie all’intervento proprio di Arnon Milchan riesce a convincerlo a fare The King of Comedy, Re per una notte, a New York, dove può più comodamente riprendersi dalla polmonite. «Fu allora che Arnon tornò alla carica proponendomi C’era una volta in America, tre, quattro anni dopo il primo incontro con Leone – mi ha raccontato De Niro. – A quel tempo volevo comprare un’isola ai Caraibi e lui è addirittura venuto con me a vederla per parlarmi di questo film. Alla fine cedetti e gli dissi: se è tratto da un libro, fammelo leggere, così mi faccio un’idea. Mi diede The Hoods di Harry Grey, ma non un vero libro, erano fogli ciclostilati. Così cominciai a leggerlo e dopo poco mi resi conto che l’avevo già fatto, da ragazzo. Era un libro che non solo avevo letto, mi era pure piaciuto. Per questo accettai, si capiva che questo Harry Grey conosceva bene ciò che raccontava, c’era un certo realismo. Poi Sergio ha dato la sua interpretazione, in un certo senso l’ha romanzato, giusto così: ho capito subito che il film non sarebbe stato uguale al libro, ma rimaneva interessante».
«Con Sergio – mi ha detto poi – trovai un metodo di lavoro nuovo, che non avevo mai sperimentato. A volte succedeva che prima del ciak io gli dicessi: fammi vedere come tu vedi il mio personaggio in questa scena. Mi sembrava interessante vedere cosa aveva in mente, per poi rifare a modo mio ciò che lui mi aveva mostrato. Perché Sergio sapeva cosa voleva, era in grado di interpretarlo per me e io potevo seguirlo. Per me come attore era una buona cosa. Ricordo che glielo dissi: mostrami che cosa hai in mente. Avevamo un interprete, Brian Freilino, un americano. Era fantastico ed era sempre a disposizione di Sergio. È stato essenziale per la nostra relazione, interveniva spesso, ogni volta che ce n’era la necessità. Abbiamo girato per un anno, non ininterrottamente, in Paesi diversi, negli Stati Uniti, a Montréal, ovviamente tanto in Italia, in Francia un po’, nell’Italia del Nord, non solo a Roma. È stata un’esperienza fantastica, perché Sergio era un tipo fantastico, una persona molto riflessiva, molto sensibile e anche molto divertente, con un grande senso dell’umorismo. È stato buono con me e con tutti gli attori, mi piaceva moltissimo. Molto simpatico. Una brava persona». In quel momento ho pensato che avesse accettato di parlarmi soprattutto per dire questo.