La Stampa, 13 settembre 2021
Ai Weiwei ha realizzato un film del virus
Gli applausi ai dottori pronti ai tripli turni li abbiamo visti anche noi, il giuramento a pugno alzato alla causa comunista prima di entrare in corsia no. E ci chiediamo ogni minuto che cosa siamo disposti a sacrificare pur di continuare a vivere, però pure noi abbiamo accettato di perdere spazio in cambio di normalità. L’ultimo lavoro di Ai Weiwei parla di Cina eppure, in parte, racconta un’esperienza comune. Coronation, documentario ambientato a Wuhan e realizzato con immagini inviate all’artista dagli amici, arriva stasera a Transart, festival indipendente che porta a Bolzano un titolo rifiutato dai grandi palcoscenici. Nel filmato l’efficienza del sistema cinese è contrapposta al controllo assoluto che lo Stato si prende senza nemmeno doverlo motivare.
È un rischio che si corre in tutto il mondo?
«L’essere umano non è pronto a reagire ai disastri inediti, il Covid-19 ha travolto tutti. La Cina ha un regime autoritario e può trasformare in un attimo uno Stato in un esercito e un esercito in un ospedale. Se un sistema totalitario vuole sfruttare il virus per aumentare il controllo non deve dare spiegazioni, non deve confrontarsi con la democrazia, può sacrificare ogni libertà e togliere la voce ai cittadini: non c’è una stampa libera che può parlare loro. Non è certo un modello, come si vede nel documentario».
E in Occidente, dove lei vive, in Inghilterra, che succede?
«L’Occidente cerca da sempre un equilibrio tra le libertà individuali e i poteri di uno Stato. Ci sono delle difficoltà, durante una sfida come quella contro la pandemia si perdono dei pezzi, ma più si guadagna esperienza più si aggiusta il tiro e nel processo si può pure imparare qualcosa, assimilare buone pratiche. In Cina questa fase di apprendimento non esiste. Non si è acquisito nulla di buono in passato, non succede ora e non succederà in futuro».
Come reagisce la gente?
«Ogni restrizione delle libertà imposte per speciali circostanze sono considerate una minaccia. In Oriente e in Occidente» .
Per l’Europa, il Green Pass è una delle fasi del processo di apprendimento di cui parla?
«Non credo si possa imporre una scelta così, nessuno ha diritto di chiedere ai cittadini di autonegarsi una libertà per poter circolare. Si sacrifica troppo: qui si parla di vincolare la possibilità di comunicare, di muoversi, di guadagnare. La vaccinazione dipende da un convincimento privato. Imporla è stonato: sembra avere un fine, l’emergenza, ma il mezzo, l’annullamento di una decisione personale, è sproporzionato».
I gruppi No vax però cavalcano questo tema.
«Non conosco così bene la realtà del movimento. Resto fermo sul fatto che la libertà non è oggetto di scambio. Mai».
Coronation è il lavoro di un artista o di un’attivista?
«È un mio lavoro».
Il creativo e il dissidente coesistono sempre o l’urgenza della causa prende il sopravvento?
«Senza la spinta del dissidente non avrei idee per la mia arte».
È sempre convinto che il documentario sia stato rifiutato dai grandi Festival come Venezia, Toronto e New York per censura?
«Ai grandi Festival si fa business e il compratore più grande oggi è la Cina: perché indispettirla? Hanno un sacco di buone ragioni per tenermi fuori».
Barbera, direttore a Venezia, ha dato una spiegazione: «Se Festival così importanti hanno detto no, un motivo ci sarà, non siamo tutti pazzi. Abbiamo spesso selezionato Ai Weiwei che al Lido ha portato Human Flow, il nostro giudizio non è politico».
«Un pensiero indipendente lo possono avere solo i piccoli festival che non sono vincolati al mercato, quelli grandi hanno bisogno di soldi: ecco perché le realtà come Transart sono importanti. Sono grato della loro esistenza perché ormai raggiungono un pubblico più largo, sono più interessati al messaggio e lo veicolano meglio».
Non accompagna Coronation a Bolzano, ha progetti italiani?
«La mia opera, Turandot, apre a Roma, a marzo. L’Italia mi piace moltissimo e mi soddisfa lavorarci».
Sapremo mai la verità su Wuhan?
«Mai. Non succederà mai».
La pandemia ha scatenato il razzismo contro gli asiatici?
«Sì, di sicuro»
Il suo post su Instagram, «Il Coronavirus è come la pasta, i cinesi l’hanno inventato e gli italiani esportata», ha scatenato un certo fastidio. Crede che abbia intaccato la sua fama nel nostro Pese?
«Non mi interessa. Molti non capiscono l’umorismo e so bene che gli italiani sono davvero innamorati della pasta».
La Cina sta per ospitare i Giochi invernali, pensa che sia più repressiva di quella conosciuta dal mondo nel 2008 con le Olimpiadi estive?
«È sempre la stessa».
Parlare di boicottaggio ha senso?
«Non ha nessuna utilità».
Se guarda il Bird Nest, lo stadio che porta anche la sua firma, vede un simbolo del totalitarismo o un monumento di cui andare fieri?
«Vedo una grande architettura».
I suoi lavori sull’immigrazione hanno aiutato a cambiare la sensibilità?
«I miei migliori sforzi non possono avere nessun effetto, però sono necessari».