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 2021  settembre 13 Lunedì calendario

Intervista allo scrittore Colum McCann

Colum McCann ha chiuso da star la venticinquesima edizione del Festivaletteratura.
Intervistato da Gabriele Romagnoli, lo scrittore irlandese non ha deluso le aspettative della folla che ha riempito il cortile di Palazzo Ducale. Apeirogon (Feltrinelli), l’ultimo premiatissimo romanzo, storia di un palestinese e un israeliano accomunati dalla perdita delle figlie, è un libro dall’architettura complessa ma di grande impatto emotivo. Poco prima dell’evento, McCann era abbastanza rilassato da aver voglia di raccontare la sua storia familiare: «Sono cresciuto in una casa piena di libri». Un flusso di ricordi legati perlopiù al padre Sean: «È morto sei anni fa. Forse prima o poi dovrei decidermi a scrivere la sua storia. Era un tipo decisamente inusuale. Durante la sua vita ha fatto molte cose, compreso curare un giardino in cui aveva coltivato migliaia di rose, ma non è riuscito a concretizzare il sogno più grande: scrivere un romanzo ».
Ci racconti qualcosa in più di lui.
«Quando aveva 16 anni si trasferì da Dublino a Londra, giocava nella squadra di calcio Charlton Athletic. Era il secondo portiere, lo pagavano 15 euro a settimana, davvero troppo poco. Erano gli anni Cinquanta, non riusciva a sbarcare il lunario con quella cifra e si mise a cercare altro. Non aveva studiato, ma era un tipo brillante per cui riuscì a diventare giornalista per la Bbc.
Si occupava di calcio».
Sembra un perfetto romanzo americano, con la classica altalena di up and down.
«C’è dell’altro. Prima di affermarsi come reporter sportivo, per un breve periodo si era arruolato nella British Army, impiegato all’ufficio dell’intelligence, ed era finito in Egitto, dove lo raggiunse dall’Irlanda mia madre. Si sposarono ad Alessandria. Dopo un anno era già stanco. Tornò a Londra a fare il giornalista. Ma è più tardi, in Irlanda, che poi ha conosciuto il successo».
Come giornalista?
«Scriveva per l’Irish Press e l’Evening Press di moda, libri e attualità. Negli anni Sessanta-Settanta diventò una firma molto amata, uno dei primi a dare risalto sui giornali alle nostre scrittrici. Aveva dedicato una pagina a Edna O’ Brien e Maeve Binchy. Nel giro di qualche anno, si affermò anche come scrittore di libri sulla cultura irlandese».
Quanto ha inciso l’ostinazione paterna sul suo desiderio di diventare uno scrittore?
«Sono cresciuto in una casa alla periferia di Dublino. Il suono della mia infanzia è quello della macchina da scrivere. Mio padre passava le giornate chiuso dentro un capannone a battere su quei tasti. Usava solo due dita ma andava velocissimo. C’erano mucchi di fogli e rotoli di carta accanto al suo tavolo. Ero il suo primo lettore, ero affascinato. Si era messo a inventare anche storie per bambini, tra cui una serie con protagonista Georgie Goode, un ragazzo zingaro che girava a bordo di un caravan.
Quando la maestra la lesse in classe, ricordo i miei compagni che saltavano sui banchi per la gioia. Ho capito allora qual era il grande potere della narrativa.
Quelle storie erano passate dalla sua testa alla realtà e questo mi sembrava bellissimo».
E lei quando ha capito cosa voleva fare da grande?
«A dodici anni già scrivevo articoletti sul calcio. Inforcavo la bicicletta e andavo a vedere le partite locali delle piccole squadre. Giocavo anch’io ma nel ruolo di mediano. A ventun anni sono partito per un viaggio in bicicletta negli Stati Uniti: per un anno e mezzo ho viaggiato tra Boston, New Orleans, Texas, Colorado e San Francisco.
Dodicimila chilometri senza mai dormire in un albergo, sempre all’aperto. Da allora posso addormentarmi ovunque, anche qui su questi sassi, per terra».
Aveva letto Kerouac?
«Dopo le scuole superiori avevo lavorato un po’ nei giornali e mi ero iscritto a un college di giornalismo, ma avevo voglia di diventare uno scrittore e il primo passo fu mettermi in marcia da Boston a Cape Code. Era stato mio padre a regalarmi On the Road. Ho adorato Kerouac, Ginsberg, Ferlinghetti».
È davvero andato tutto così liscio come racconta o è lei a essere un ottimista?
«Ho attraversato come tutti momenti brutti, lutti, difficoltà.
La vita. Ma credo con Gramsci nel pessimismo dell’intelligenza e nell’ottimismo della volontà. Con un neologismo, direi che sono un "pessi-ottimista". Non sarei ottimista se non fossi stato un pessimista. Penso che dietro ogni storia, anche la più brutta, ci sia sempre un po’ di luce».
"Apeirogon" racconta il conflitto tra Israele e Palestina, come vede il futuro?
«Sono irlandese, il mio Paese ha attraversato una lunghissima guerra durata centinaia di anni e da 23 anni ne è uscito, è naturale per me nutrire fiducia nella possibilità della pace».
Ha preso appunti durante la pandemia?
«Ho provato per ben due volte a scrivere un romanzo sul Covid, ma ho cestinato entrambi i tentativi. L’idea era raccontare dodici ore trascorse in un ospedale. L’esperimento è finito lì, fallito ( ride). Forse è ancora troppo presto per tentare di capire quanto ci è successo».