Corriere della Sera, 13 settembre 2021
Dodi Battaglia parla della morte della moglie
Dodi Battaglia è nella sua casa di Bologna. Ovunque, chitarre, spartiti. Alle pareti, dischi d’oro, di platino. Sul pianoforte, una foto in cornice ribaltata di cui si vede solo il retro, come se l’avesse abbattuta un piccolo meteorite. Lui sta in maglietta bianca, le spalle incassate. Dice: «Ogni passo in queste stanze mi ricorda Paola e ogni immagine di Paola è una pugnalata. Sento proprio un dolore fisico al cuore». Paola Toeschi, sua moglie, 21 anni insieme, 11 di malattia, è morta qui, a soli 52 anni, lunedì scorso. Lui, oggi, è appena rientrato da Riccione: «Ho portato la piccola a pranzo al mare. Per distrarla dai ricordi. I ricordi sono una pugnalata». Racconta che al funerale qualcuno, per confortarlo, gli ha detto «almeno ha finito di soffrire». Mi guarda: «Sa che ho pensato?».
Che cosa?
«Che purtroppo, nella fine della sua sofferenza, è finita anche la mia lotta contro il suo male. Dal 2010, la mia motivazione per vivere è stata lei: la visita, la chemio, trovare un altro medico... Quando se n’è andata mi sono sentito come un pallone che si sgonfia. Ho sempre trovato impensabile la depressione, non mi assomiglia, sono combattivo, ma ora comincio a pensare cosa può provare una persona che resta senza l’amore della sua vita e magari non ha amici, non ha una figlia di 15 anni da accompagnare nel futuro. Io ho la fortuna di avere come obiettivo mia figlia. Dover andare avanti per lei è una forza enorme. Sofia è forte, porta con orgoglio e dignità il cognome di famiglia, ma è sempre un cuoricino di 15 anni».
Quanto è stata forte negli anni, con la madre malata?
«Quando mia moglie ha scoperto di avere un tumore al cervello, le ha fatto un discorso che puoi fare a un bimbo di 5 anni. Ma i figli sono molto più intelligenti di quanto possiamo pensare: quando Paola è stata operata, Sofia le ha dato la bambola da cui non si separava mai. Le ha detto: così in ospedale non ti sentirai sola. Adesso, fuori dalla chiesa, mentre portavano via la bara, le ho detto: andiamo a salutare la mamma perché di mamme così belle non ce ne sono tante».
Alle esequie, lei ha detto: «Se ne è andata una persona con una grande anima». Com’è fatta una grande anima?
«Brilla. Quando entra in una stanza affollata, la avverti sulla pelle. Chi l’ha conosciuta mi dice: che anima trasparente, che gentilezza. Era nata col sorriso. Pochi sanno che era un’attrice di spot: era la mammina del Mulino Bianco, aveva quella faccia da donna alla quale affidare i figli».
In chiesa, lei ha detto anche: «Ho passato gli ultimi giorni della sua vita abbracciato a lei, baciandola e parlandole dolcemente».
«Anche gli ultimi due giorni, quando era in coma. Mi hanno detto: stai lì e parla, hai visto mai che le arrivi qualcosa... E così ho fatto. Un giorno le dicevo: ricordi quando è nata nostra figlia? Ricordi quella vacanza? E quando abbiamo cambiato casa? Le raccontavo le cose più fantastiche che una coppia innamorata fa. E mi è venuto di chiederle perdono. Perché sottoposto a certi stress puoi diventare nervoso, brusco».
Paola come ha vissuto la malattia?
«Non l’ho mai vista piangere, né sentita lamentarsi, pregava molto. Dopo un viaggio a Medjugorje ebbe un’illuminazione e la sua vita divenne molto dedicata alla preghiera, a chiese e sacerdoti. Io ero già cattolico cristiano, comprendo che ti aggrappi alla fede, ma l’ho vista diventare una moglie diversa, una con cui non parlavi più delle prossime vacanze o potevi condividere certi discorsi. Magari le chiedevo qualcosa e lei rispondeva: scusa, sto pregando. La terza volta uno dice: mah... Quello è stato un momento un pochino strano. Le sono stato accanto. Sono andato con lei a Medjugorje. Lì diceva messa un frate così in gamba e intelligente che ho chiesto di parlargli. Dico: padre, ho un problema, trovo che mia moglie sia troppo dedicata alla preghiera. Mi ha risposto che, nel suo stato, era normale che il rapporto fra le due cose, me e Dio, fosse sbilanciato... Me l’ha spiegato con una semplicità che mi ha pacificato».
Lei ha pregato?
«Moltissimo. Da subito. Alla prima visita, ci dissero: operiamo fra due giorni, può morire sotto i ferri, può rimanere paralizzata per metà, magari non parlare più. Da quel momento all’operazione, ho pregato senza fermarmi».
Come avete scoperto la malattia?
«Una mattina cominciò a tremarle una gamba in modo inconsulto. Ci dissero: se sopravvive all’intervento farà un percorso di terapie dai 5 ai 15 anni che ora non sappiamo quanto e come potranno servire. Ci pronosticarono quello che è accaduto. Per fortuna l’operazione andò bene, anche se una parte del tumore non poté essere rimossa. Tornò a casa, dopo due o tre mesi giocava a pallacanestro, usciva con le amiche. Poi sono stati anni di cicli di chemio e radioterapia, di alti e bassi. Pensare che Paola aveva 18 anni meno di me e ci scherzavo su... Dicevo: sono il vecchietto della famiglia, morirò prima io».
Ha detto che Paola non ha mai pianto. E lei?
«Ultimamente ho finito le lacrime. Le parlavo, la guardavo e piangevo. Doveva tornare in ospedale per le cure il giorno dopo in cui è mancata, ma si è aggravata».
Come vi conosceste?
«Ero con i Pooh a un concerto di beneficenza a Macugnaga, in Piemonte. Lei arrivò con una mia amica di lì, vidi una persona luminosa, bellissima. Avrei voluto invitarla il giorno dopo, ma ero in una storia che stava per finire e donne come Paola meritano rispetto. Un anno dopo, quando sono tornato libero, un minuto dopo, l’ho cercata».
Se pensa a lei, cosa vede?
«Un disegno di Sofia, che ho nascosto perché vederlo mi fa male: c’è lei piccola fra noi che la teniamo per mano. Paola mi ha insegnato che l’amore può crescere. Questa possibilità c’è e dobbiamo continuare a crederci. Ci penso ogni volta che esco, vedo un certo ristorante, passo al casello che attraversavo con lei e penso che non esisterà un altro amore, che non potrò mai più essere così felice».
Quando le manca di più?
«Io la sento ancora qui. Le chiedo di proteggerci. E la risposta arriva. Magari non è lei, ma è la sua voce e la risposta è perbene come era lei».