Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  settembre 13 Lunedì calendario

Intervista a Tarcisio Bellò, l’uomo che scala le montagne per dargli un nome


I numeri non sono tutto, però i «numeri» di Tarcisio Bellò dicono: vent’anni di esplorazioni in Pakistan, nella zona dell’Hindu Kush e dell’Hindu Raj, per un totale di una dozzina di spedizioni, nelle quali sono state scalate sei montagne oltre i seimila metri (di cui cinque inviolate e quattro senza nome) e più di trenta vette oltre i cinquemila metri (tutte senza nome e in prima ascensione), sono stati scoperti vari passi, è stato disceso per la prima volta il ghiacciaio di Chiantar (35 chilometri) e, grazie a questa attività, è stata mappata l’area. E poi: dieci anni di cooperazione in cui a Ghotolti, un villaggio a 2.600 metri nel nord del Pakistan, sono stati costruiti un acquedotto che ha portato acqua potabile per la prima volta, un dispensario farmaceutico, un ponte in metallo, una strada di accesso ed è stato fondato il «Cristina Castagna Center», nel quale si creerà una Scuola di alpinismo, la prima locale, intitolata a Daniele Nardi.
Ecco, questi sono i «numeri» di Tarcisio Bellò, nato a Vicenza nel 1962, alpinista non di professione ma, per gambe e cuore, decisamente sì. Tanto è vero che è Agostino Da Polenza, che nel 2004 aveva convocato Bellò per la spedizione italiana sul K2 per il cinquantesimo della prima salita, a firmare la prefazione di Il coraggio dei sogni (Hoepli), un libro fatto di tecnica e scalate e, soprattutto, di tanta passione e moltissimi ricordi, anche di amici scomparsi come Cristina Castagna, Daniele Nardi, Imtyaz; e arricchito da fotografie, appendici, perfino un piccolo vocabolario e una serie di mappe che attestano l’attività intensa degli alpinisti italiani nel descrivere il territorio e nel dare un nome a luoghi così remoti che nessuno ci aveva mai messo piede...
Tarcisio Bellò, ma come si dà un nome a una montagna?
«Prima si ascoltano le persone del luogo, poi si consultano i materiali d’archivio; ma un nome è tale quando diventa davvero d’uso presso la comunità locale e alpinistica: come Everest o K2, nomi che nulla hanno a che fare con quelli antichi».
E quindi come si fa?
«Bisogna comunicarlo, producendo mappe e documenti. Poi noi ci siamo sbizzarriti... Alcuni nomi sono dedicati a figure locali importanti o alla morfologia; altri ai finanziatori delle spedizioni, per esempio il Somerset Peak, 5519 metri, per un gruppo di appassionati di Torino, o il Lions Melvin Jones Peak, 5853 metri, dedicato al fondatore dei Lions».
Chi altri?
«La cima Jinnah, 6177 metri, per il primo Presidente del Pakistan; e quella per Iqbal, 5820 metri, grande poeta pachistano».
La Cima Alpinisti vicentini, 5750 metri, è più alta della Cima Veneto, 5701...
«Ah, ma no, è casuale... Le cose nascono durante la salita...»
E l’Italia Peak?
«È andata così: abbiamo tentato in tre, un italiano, un russo e un americano; siamo rimasti per tre giorni a 5.700 metri sotto la neve e la pioggia, chiusi nel sacco a pelo a fare niente, e poi siamo scesi. Lo so che sembra una barzelletta. Poi, dopo altri tre giorni, è venuto il bel tempo e così ho deciso di salire, da solo».
Da solo?
«Io ho chiesto, ma gli altri due non volevano più. Così sono arrivato in cima, a 6189 metri, e l’ho chiamato Italia Peak».
Quando è nata la sua passione per la montagna?
«Fin da piccolo. Poi ho capito che scalare è meraviglioso, anche se alla mia prima scalata sono caduto e ho avuto gli incubi per molte notti».
Quanti anni aveva?
«Ventinove. Ero sulle Piccole Dolomiti. Per fortuna, un chiodo ha tenuto e mi sono salvato, ma a quel punto ho deciso di imparare davvero».
Dove è cresciuto?
«A Vicenza, poi d’estate andavo in alpeggio in Grappa. Ho fatto diversi lavori, sono agrotecnico, esperto nutrizionista di vacca da latte, sono stato operaio e, ora, bibliotecario».
Il bibliotecario? Un lavoro più sedentario...
«Faccio le sostituzioni dei colleghi e ho molti giorni liberi».
Fa le spedizioni durante le ferie?
«Sì. La prima è stata nel ’93, con mia moglie Isabella, da soli per quaranta giorni in Nepal, a Kumbu, la valle dell’Everest».
Sua moglie è avventurosa?
«Sì sì. Senza il suo sopporto, tutto questo sarebbe stato impossibile. Finché abbiamo fatto viaggi tranquilli è venuta anche lei; poi nel ’98 ho scalato il mio primo ottomila, il Dhaulagiri, 8167 metri, e ho dovuto fare 45 giorni di campo base, una vita durissima, non è che sia molto attraente...»
Come è salito sul Dhaulagiri?
«Senza ossigeno. Sull’Everest, nel 2003 e nel 2004, con l’ossigeno, perché c’erano condizioni atmosferiche proibitive. Sono stato in Perù, sulla Cordillera Blanca e undici volte in Pakistan».
È stato anche sul K2.
«Nel 2004, per la spedizione italiana del cinquantesimo. Sono arrivato fino a 8mila metri, poi sono tornato indietro per il freddo ai piedi».
Nello stesso anno dell’Everest?
«Sì, in quattro mesi sono passato dall’Everest al K2, tornando a casa solo per quindici giorni... Sul K2 avevo un incarico, cercare le lastre per misurare i raggi cosmici che Ardito Desio aveva affidato agli alpinisti, ma era difficilissimo, un ago in un pagliaio. Il K2 è una montagna tutta inclinata, dalla cima alla base».
E l’Everest?
«Anche lì dovevo fare delle ricerche per ritrovare il corpo di Irvine, il compagno di Mallory, che nel 1924 scalò l’Everest e molto probabilmente arrivò in vetta».
È salito sull’Everest e sul K2, non è il massimo per un alpinista?
«Sì, sono difficili, ma sono montagne, un mucchio di sassi e ghiaccio: se sei capace, sali; se non riesci vuol dire che non sai scalare. Certo devi avere la tecnica».
Come ci si prepara?
«Fare alpinismo sulle Alpi è già un buon allenamento, soprattutto scalate su vie lunghe, che mettono alla prova il fisico in modo adeguato per l’altissima quota, dove lo sforzo e l’impegno sono triplicati. Poi serve una predisposizione per andare in alta quota, perché il 25 per cento della popolazione non si adatta».
E come si scopre?
«Strada facendo».
Quanto tempo ci vuole per scalare una vetta?
«Da tre a sette giorni di ascensione, dal campo base. Il fattore strategico è capire se ci sia bel tempo, perché è tutto più facile».
Altrimenti?
«Altrimenti devi adattarti: l’unico modo per sopravvivere è fare esperienza, anche sulle Alpi, in condizioni atmosferiche non buone, per abituare il fisico e la psiche».
Bisogna scalare quando piove?
«Negli anni ’90 col mio gruppo andavamo a scalare sul Monte Bianco senza guardare le previsioni, si usciva e basta. È un percorso che va fatto per gradi, anche il Bianco è una montagna severa, però è così».
Tornando nel «suo» Pakistan, quanti nomi avete dato?
«Decine. A quattro montagne sopra i 6mila e ad almeno trenta sopra i 5mila, e abbiamo mappato la zona dell’Hindu Kush nord-orientale, partendo da vecchie mappe russe».
La cima a cui è più affezionato?
«Cristina Campagna Peak, 5311 metri, sia perché è stata una bella scalata in solitaria, sia perché ho dedicato la cima a una mia cara amica, nell’anno in cui è precipitata dal Broad Peak».
Che paesaggio è quello del mitico Hindu Kush?
«L’Hindu Kush è lungo, ha montagne di 7mila metri e numerosissimi 6-5mila. In vetta all’Everest il panorama è meno impressionante, perché l’Everest è tanto alto, quindi quello che vedi sotto è un po’ piatto; invece l’Hindu Kush è tutto irto di montagne a perdita d’occhio, colate di ghiaccio, cime acuminate, seraccate, anche spaventose, te le vedi tutte lì davanti e fa impressione».
Non ha mai paura?
«Diciamo che riesco a mantenere la freddezza. Nel 2019 però, salendo al Lions Melvin Jones, siamo stati travolti da una valanga a 5.700 metri e lì l’idea di non poter più tornare giù l’ho avuta. Il mio amico Imtyaz è rimasto vittima dell’incidente. Ho avuto timore soprattutto per il gruppo, perché i soccorsi erano molto difficili e già riuscire a indicare la posizione è stato complicato».
E della valanga non ha avuto paura?
«È stato un attimo, ho salutato mia moglie e i miei figli, ho pregato che i miei amici si salvassero e basta. Aspettavo il colpo finale. Si vive per vivere le esperienze, poi, se succede, fa parte della vita».
È vero che sarebbe dovuto andare con Daniele Nardi sul Nanga Parbat, proprio nella spedizione in cui lui ha perso la vita?
«Sì, ma avevo una sciatica invalidante. Comunque sarei stato solo di supporto, perché Daniele era tre gradi sopra i miei... Anche in Pakistan è una figura molto apprezzata».
Quando è nato il rapporto speciale con le popolazioni dell’Hindu Kush?
«Nel 2007 a Ghotolti è nata una prima collaborazione per costruire un acquedotto, poi abbiamo costruito un ponte e una strada, ma l’opera più importante è la relazione fra noi e loro: il nostro progetto di cooperazione si è identificato con il loro bisogno di dare una prospettiva di futuro ai propri figli, attraverso l’alpinismo e il turismo».
La costruzione del Centro?
«L’idea è quella di un rifugio che, nella bassa stagione, serva per la Scuola di alpinismo».
In Pakistan non esistono guide?
«No. Eppure il Paese ha cinque ottomila, fra cui il K2, cento montagne di 7mila metri e non sappiamo quante di quota inferiore e, fra queste cime, l’alpinismo internazionale riscuote premi per le sue imprese. Però gli scalatori pachistani non hanno le stesse opportunità delle nostre guide, o degli sherpa nepalesi, riconosciuti a livello internazionale. Noi italiani abbiamo scalato il K2, che anche in Pakistan è considerato la montagna degli italiani: se potessimo chiudere il cerchio, con una Scuola per formare le guide alpine, che intitoleremmo a Daniele Nardi, sarebbe un’altra grande impresa di cui andare fieri».
La solidarietà è una tradizione della montagna.
«Certo, e molti altri alpinisti hanno aiutato le popolazioni locali, come Edmund Hillary, Silvio Mondinelli, Fausto De Stefani e Agostino Da Polenza. Il nostro progetto cammina lungo questa via, con l’idea che, attraverso l’alpinismo, si possano creare solidarietà e prospettive per le popolazioni locali».
Anche per le donne?
«La Scuola di alpinismo Daniele Nardi è rivolta anche alle donne pachistane; alcune sono già attive, come Samina Baig, che ha scalato l’Everest qualche anno fa e le compagne di scalata Nadeema Sahar e Shakeela Numà».
Come procede il progetto?
«Al momento ogni mattina alle 5 sono in contatto con i pachistani per aiutarli nella costruzione del Centro: inizieremo il tetto in autunno e, speriamo, i primi corsi nel 2022 o 2023».
L’impresa più emozionante?
«Forse la scalata in solitaria su Italia Peak, mille e cinquecento metri in salita fino a 70 gradi, praticamente solo. Una esperienza straordinaria dal punto di vista motivazionale. Appena sono sceso ho guardato le montagne intorno e mi sono detto: le scalo tutte; poi mi sono seduto su una sedia e mi sono addormentato».
Sua moglie non ha mai paura?
«No, ma si arrabbia se non arrivo in cima».
A chi vorrebbe dedicare una nuova vetta?
«Vorremmo dedicarla a un amico che non c’è più».
Continuerà a scalare?
«Vorrei arrivare a 70 anni a scalare il quarto grado di difficoltà su roccia, perché ti mantiene in forma, mentalmente e fisicamente, e collegato alla natura. Per esempio è una esperienza straordinaria dormire di notte su un ghiacciaio, senza tenda, protetto nel sacco a pelo a guardare le stelle».
Che cosa prova lassù?
«La scalata è il viaggio: è il percorso che a me piace, la condivisione con i compagni. Poi, lassù, quando ti guardi intorno è tutto spettacolare, vedere la vastità delle montagne, pensare a tutte quelle catene attorno quasi sconosciute e al fatto che sei uno dei pochi lì... Ti dà una emozione particolare e ti apre un mondo, hai davanti quelle montagne e vorresti salire anche su tutte le altre, però poi il pensiero è che devi scendere. Devi essere concentrato, perché devi tornare laggiù».