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 2021  settembre 05 Domenica calendario

Su "Erratici. Disperse e altre poesie. 1937-2011" e "Traduzioni trapianti imitazioni" di Andrea Zanzotto (Mondadori)

In occasione del centenario della nascita di Andrea Zanzotto, che cadrà il prossimo 10 ottobre, sono in arrivo ben due primizie del poeta di Pieve di Soligo: un volume di versi, Erratici. Disperse e altre poesie 1937-2011, curato da Francesco Carbognin, e uno di Traduzioni trapianti imitazioni, curato da Giuseppe Sandrini (escono entrambi nella collana «Lo Specchio» di Mondadori). È senz’altro un modo non effimero per onorare la memoria del poeta, che per altro, a dieci anni dalla scomparsa (è questo un suo secondo anniversario: è mancato infatti il 18 ottobre 2011), continua a essere amato e ricordato come sta accadendo per pochi altri tra i maggiori del secolo passato. Non c’è che dire, Zanzotto è un poeta che è bello leggere, che forse è ancor più appassionante studiare, e che sicuramente si è fatto voler bene.

Tuttavia, anche al di là del carisma personale, che nel suo caso non passava certo per prove di forza psicologiche, quanto per continue lamentazioni e denunce di personale inadeguatezza, che cosa colpisce di più di questo poeta e della sua poesia? Forse nessuna in particolare delle sue tante celeberrime qualità. Il dominio della lingua e degli strumenti espressivi, la conoscenza della tradizione poetica, la vastità degli interessi e delle conoscenze, l’inclusività tematica, che è davvero straordinaria, la sensibilità ambientale, l’incessante evoluzione formale, il vincolo di reciprocità tra piccola patria e grande mondo, la capacità, magari anche con una componente bulimica, di tenere tutto quanto insieme, e tant’altro. Piuttosto, si tratta piuttosto di qualcosa che sta a monte e che si potrebbe formulare nel modo che segue: la riverenza per la natura, il rispetto per la sacertà della vita, o detto altrimenti per il mistero inesauribile della realtà. Zanzotto è un poeta spesso e volentieri ironico, affilato, anche irriverente, eppure, se si guarda di scorcio la sua storia di poesia, la sua premura più continua e pungente riguarda l’insufficienza, l’inadempienza della parola poetica, anche della più sensibile e accordata, nel rendere ragione di quella cosa più grande, sempre eccedente i nostri sforzi di misurazione (e appropriazione), che è la vita, ciò che sta di là da noi, che è altro.

I componimenti raccolti in Erratici in qualche misura consentono di cogliere in modo unitario un’opera poetica per altro estremamente corposa e multiforme. Il volume comprende le liriche pubblicate da Zanzotto tra il 1937 e il 2011 nelle sedi più diverse e poi non incluse nelle opere maggiori, anche se, come chiarisce Carbognin, «lessicalmente e tematicamente contigue alle liriche di coeva elaborazione che invece vi sono state destinate». Questo fa sì che pur fra dislivelli e salti temporali ne derivi una specie di antologia zanzottiana parallela, come un fiume più piccolo, se vogliamo anche molto più piccolo, che in ogni caso corre sempre di lato al suo fratello maggiore. Già a una prima lettura, la corrispondenza tra queste poesie e i modi espressivi riconducibili alle diverse stagioni della poesia di Zanzotto è praticamente perfetta.

Accade così che a uno sguardo sintetico i fili di continuità di quest’opera in versi risaltino come se non più delle differenze, a partire appunto dalla venerazione verso la natura, il manifestarsi puro e semplice della vita. E non importa poi tanto, allora, che si passi dal paesaggio sentito come fuga e riparo dalle pressioni dell’esistenza, tra anni Quaranta e Cinquanta, alla percezione sempre più allarmata dello stravolgimento insieme ambientale e psichico nei decenni successivi. Anzi, più si complicano, più si snaturano i rapporti tra l’uomo e il suo ambiente di vita (il volto perverso della scienza e della tecnica), tanto più questa poesia risulta premurosa nel rendere ragione della primogenitura e, si vorrebbe, della inviolabilità di ciò che all’uomo e alla sua storia semplicemente preesiste. Sono versi del 1994: «E guarderemo e custodiremo/ l’essenza dei monti/ e ciò che è stato nostro in rutilanti/ o povere carte: lieti di capire o fors’anche/ di stravedere, ma con intatto semplice, ansioso, tic/ di connivente amore, di sacre omertà».

Detto questo, bisogna subito aggiungere che il volume riserva molte sorprese. Ad esempio, tra i tanti richiami possibili, uno Zanzotto ancora liceale che scrive versi molto pascoliani e già letteratissimi per una ragazzina che comunque non lo corrisponderà; quindi alcuni esercizi manieristici deliziosi, uno splendido componimento intitolato Appunti e abbozzi per un’ecloga in dialetto sulla fine del dialetto (1969-1971), o ancora un poemetto in nove tempi, Il vero tema, che rappresenta forse il testo più notevole del volume e che è tutto incentrato appunto sul rapporto d’attenzione e devozione alla vita di cui si diceva. Qui il poeta s’avvicina con estrema premura a un grillo, ma questo se ne saltella via, libero di essere sempre e soltanto sé stesso.

Anche il volume delle traduzioni offre diverse sorprese, come le giovanili versioni di Hölderlin, García Lorca e Rimbaud (di cui si troverà anche Il battello ubriaco: «Se desidero un’acqua d’Europa, è la pozzanghera/ nera e fredda, dove, verso il crepuscolo imbalsamato/ un fanciullo accovacciato, pieno di tristezze, lascia/ un battello fragile come una farfalla di maggio»), oppure, molto più avanti nel tempo (Zanzotto ha tradotto con più continuità negli anni Sessanta), gli amatissimi Éluard e Michaux, poi Orazio e Virgilio, così decisivo per la sua stessa poesia, un arduo poemetto di Hegel, gli spagnoli Salinas, Guillén e Machado, ma anche alcune lettere di San Paolo.

All’inizio degli anni Ottanta, anche su sollecitazione della casa editrice Einaudi, il poeta aveva pensato molto seriamente a una raccolta delle sue traduzioni. E una volta naufragato quel progetto editoriale, continuò a pensarci anche nei decenni successivi, pur senza mai approdare a un risultato organico e convincente. Nel raccogliere le diverse prove di traduzione, comunque, Sandrini ha giustamente rispettato la struttura che il poeta intendeva dare al suo lavoro, a partire da una curiosa suddivisione non per autori ma per comparti linguistici. Questo dice già del particolare approccio alla traduzione di Zanzotto, che procede più per un interesse tecnico e linguistico, che per una passione poetica e, diciamo così, umana. La traduzione è per lui un territorio di esercizi e di prove espressive, anche di sfide, piuttosto che di trasfusioni e impossessamenti reciproci tra lingua e lingua, testo e testo, autore e autore. Probabilmente per questo, se pure vi si trovano alcuni esiti eccellenti (con Éluard, per ricordarne uno), questo libro non presenta nel complesso quella necessità e intensità che distinguono antologie di traduzioni analoghe, come Il musicante di Saint-Merry di Sereni, Il ladro di ciliegie di Fortini, Addio, proibito piangere di Giudici o il Quaderno di traduzioni di Montale (riproposto in questi giorni da Mondadori per i quarant’anni dalla sua scomparsa).

Al riguardo, il curatore del volume riporta due dichiarazioni del poeta alquanto illuminanti. Nella prima, scrivendo a Sereni nel 1981, Zanzotto senza mezzi termini confessa: «Di fatto io non riesco ad “abbandonarmi” al tradurre». Mentre nell’altra, tratta da un intervento teorico, ribadisce «quello che aveva già detto Dante, cioè che quanto è connesso “per legame musaico” non si può trasportare da un idioma all’altro». Da ogni punto di vista Zanzotto rimane per eccellenza un poeta col miraggio dell’organicità, della natura naturans, della fonte prima e inattingibile. Non è un caso che questo suo libro sia rimasto allo stato di progetto, come un fantasma che non poteva comunque essere il suo.