Tuttolibri, 11 settembre 2021
Intervista a Elif Shafak - su "L’isola degli alberi scomparsi" (Rizzoli)
«La mia patria è la terra delle storie e dell’immaginazione. Solo lì mi sento davvero a casa». Elif Shafak è nata nel 1971 a Strasburgo, dove il padre studiava filosofia. Ha passato l’infanzia ad Ankara, allevata dalla nonna dopo il divorzio dei genitori, l’adolescenza in Spagna al seguito della mamma diplomatica, prima di ritornare per l’università a Istanbul. Ha insegnato a lungo negli Stati Uniti e da anni vive a Londra, dopo esser stata dichiarata dal governo di Erdogan «persona non grata». Un percorso non dissimile da quello dei suoi protagonisti, la turca Defne e il greco Kostas, nati a Cipro, L’isola degli alberi scomparsi, divisa da un muro di intolleranza e nazionalismi. E fuggiti a Londra, nascosto in valigia un alberello di fico, simbolo del loro amore contrastato e di tutti coloro cui è dedicato il libro: «gli immigrati e gli esuli in ogni dove, gli sradicati, i ri-radicati, i senza radici». Shafak sorride, le mani lunghe e i chiari occhi malinconici, la voce lenta come un incantesimo: «Io in valigia mi sono sempre portata dietro le storie. Ovunque sia andata, in tutti questi anni, la fantasia è stata il mio unico bagaglio».
Il libro è un canto di nostalgia per un Mediterraneo perduto. I lettori italiani si riconosceranno nelle luci, nei colori, nei profumi. Rappresentano le sue radici?
«Le mie radici sono turche e mi sento profondamente mediterranea, amo la Grecia, la Spagna, l’Italia. Ma sono grata a Londra, che mi ha accolta e dove vivo da più di 12 anni. E il periodo negli Stati Uniti è stato fondamentale per la mia formazione. In realtà sono un perfetto esempio di cittadina del mondo, la colla esistenziale che tiene insieme i diversi pezzi della mia identità sono le storie».
Eppure gli integralisti, che hanno diviso Cipro con un muro di nazionalismi e religione, teorizzano che abbiamo una sola identità e appartenenza, perché mai?
«Purtroppo viviamo in un mondo che ci permette di essere una sola cosa, vivere in un’unica dimensione, e questo è molto limitante. Sono profondamente critica nei confronti di tutti i nazionalismi e i fanatismi religiosi, di quello che innalza steccati invece di creare ponti. Nel cuore di ogni fondamentalismo c’è la costrizione a scegliere una parte, “o con noi o contro di noi”, ma io non vedo così il mondo: dobbiamo tutti imparare a gestire appartenenze multiple, nelle nostre menti come nei nostri cuori».
C’è forse il timore che aprirsi al diverso, al nuovo, al futuro significhi dimenticare il passato?
«Ma non è così. Il cuore umano è abbastanza grande per preservare le memorie e contemporaneamente guardare avanti. Invece è importante riconoscere che abbiamo una molteplicità di aspetti, solo così saremo più aperti agli scambi con altre culture: tornando al Mediterraneo, la bellezza e la complessità della nostra storia e della nostra eredità dipendono proprio dagli scambi continui. È cruciale riconoscere quello che abbiamo in comune, essere orgogliosi delle nostre origini ma anche abbracciare il futuro».
Come i suoi protagonisti Kostas e Defne, anche lei non può tornare in patria, è stata processata per aver «offeso il buon nome» della Turchia con il suo libro La bastarda di Istanbul: cosa pensa del governo Erdogan?
«Mi manca Istanbul, per me è casa, non poter tornare mi spezza il cuore. La Istanbul che ho conosciuto da ragazza era un mondo di diversità, c’erano gli armeni, gli ebrei, i cristiani. È stato un momento fondamentale della mia formazione. È un grande dolore vederla in mano a questo governo nazionalista, integralista, sessista, omofobo, che peggiora anno dopo anno. Un governo sempre più macho e intollerante».
Lei scrive in inglese e in turco: in che lingua pensa?
«Penso sia in inglese che in turco. Trovo più facile scrivere in turco, naturalmente, nella lingua inglese resto un’immigrata e non è facile essere uno scrittore immigrato. In realtà però alcuni personaggi e alcuni stati d’animo li esprimo meglio in inglese, prima di tutto l’umorismo. Non riesco a essere divertente in turco, è molto più facile in inglese. Il turco è adatto per esprimere sentimenti come la malinconia e la nostalgia».
E la maternità? Lei ha due figli, con loro è una madre più turca o più inglese?
«Direi più turca: vengo da una stirpe di donne forti, sono stata allevata da mia madre con l’aiuto di mia nonna, una donna semplice ma che ha permesso a mia madre di studiare e fare carriera. Credo molto in questa eredità matrilineare e vorrei continuarla».
Nel libro non soffrono solo Kostas e Defne, ma anche la loro figlia adolescente Ada. Il dolore è ereditario? Quanta fatica fanno le seconde, e le terze, generazioni di immigrati?
«Ho sempre creduto nel dolore ereditato, non è un concetto molto scientifico ma l’ho toccato spesso con mano. A darci forma sono le memorie, le storie familiari, anche i silenzi. I figli assorbono il dolore dei padri, sentono dolorosamente le ferite non dette. Nelle famiglie, non solo in quelle di immigrati, ma anche in quelle con storie complesse alle spalle, spesso si ripete un ciclo: la prima generazione è molto attaccata alle tradizioni della terra lontana, la seconda generazione vuole solo appartenere alla patria di accoglienza, la terza vuole scavare nella storia famigliare. Ho incontrato molti ragazzi con memorie antiche».
Ada è piena di rabbia, come molti suoi coetanei: da dove viene il malessere della Generazione Z?
«La rabbia è dolore accumulato. È un’epoca in cui non è facile essere giovane: da ragazzi, noi eravamo sostenuti dalla convinzione che il domani sarebbe stato più luminoso del passato, che fosse possibile studiare e impegnarsi per avere una vita migliore dei propri genitori. Non è più così, questa è un’era di pessimismo, di incertezza. Non ci sono garanzie. A partire dai cambiamenti climatici, dominano l’ansia e la paura».
L’urlo di Ada diventa virale e la espone a ogni tipo di attacco, eppure il suo giudizio sui social non è del tutto negativo, come mai?
«I social sono come la luna, hanno una luce brillante e un lato oscuro. Sono molto critica sulla rete, si crea un ambiente tossico, pieno di aggressività , disinformazione, abusi, “hate speech”, soprattutto contro le donne: una ricerca delle Nazioni Unite dice che in tutti i paesi le donne, anche on line, sono molto più maltrattate degli uomini. Eppure in una nazione come la Turchia, dove non c’è una stampa indipendente e neanche libertà di opinione, a volte i social sono l’unico modo per avere informazioni, l’unico strumento per comunicare, soprattutto per le donne che non hanno uno spazio pubblico ma possono connettersi in rete. Quindi non tutto è negativo: anche Ada, dopo lo choc della pioggia di critiche violente al suo comportamento filmato, scopre un mondo è pieno di gente che ha voglia di urlare: non è sola nel suo dolore».
Il grande protagonista del libro è un albero, il «fico allegro» simbolo dell’amore tra Defne e Kostas, trasportato a Londra e seppellito nei mesi freddi per farlo sopravvivere. Un’immagine potente di resistenza.
«Ho scoperto questa suggestiva tradizione di seppellire le piante in Nord America, grazie ad alcune famiglie italiane immigrate. Gli alberi, le loro radici, ma anche le loro fronde protese verso il cielo, sono molto importanti, sia metaforicamente che realmente, per le nostre vite. Vivono più a lungo e sono più saggi di noi: sono un mistero, non sappiamo tutto di loro, delle loro connessioni e delle loro memorie. Ma ci ricordano che noi uomini non siamo i soli abitanti della Terra, e non abbiamo una speciale priorità nella catena ecologica. Dunque, cosa c’è di meglio di un albero da portare con sé verso un nuovo mondo?»
Un’altra cosa che tutti ci portiamo dietro dall’infanzia è il cibo, che ha grande importanza nella storia: la zia di Ada addirittura sa comunicare amore soprattutto cucinando.
«Amo il cibo, anche se sono una pessima cuoca. Faccio spesso ricerche sul cibo, ho molto rispetto per la sua storia e divoro libri di ricette: è un argomento importante, ad altissimo contenuto emotivo e anche politico. Basti pensare alla baklava, il dolce tradizionale a base di miele: tutti i popoli affacciati sul Mediterraneo se lo litigano, sono convinti di averlo inventato loro. Se potessimo spezzare il pane insieme ci sarebbero meno guerre».
Il suo piatto preferito?
«I miei piatti preferiti sono tutti mediterranei. La cosa di cui proprio non posso fare a meno è l’olio d’oliva».
Dice che i libri e le storie sono la sua patria. Quali sono i suoi autori preferiti?
«Leggo di tutto, avidamente, poesia, filosofia, libri di cucina, romanzi... il mio background è interdisciplinare perché credo che sia importante fare associazioni, coltivare l’eclettismo. Alto e basso: nell’adolescenza ho amato Charles Dickens, Racconto di due città, ma anche il fantasy La storia infinita. Mi affascinano i narratori russi, straordinari indagatori dell’animo, e gli italiani, Italo Calvino, Umberto Eco, sopratutto Primo Levi, una scoperta fondamentale, che mi ha cambiato la vita».
Preferisce la fiction o i saggi?
«Sopratutto fiction. Non sopporto chi dice di non leggere fiction ma solo saggi di storia, politica, economia, con la scusa di non avere tempo per la fantasia e voler rimanere aggiornato sulla realtà. Dividere la conoscenza in compartimenti stagni mi mette a disagio. Tutto quello che esiste nella vita reale esiste anche nella narrativa, scienza, amore, paura, disperazione, resilienza… Ascoltare storie per l’essere umano è come respirare: siamo fatti di storie, ricordiamo e ci connettiamo attraverso le storie».
Come ci aiutano le storie?
«Favoriscono l’intelligenza emotiva. E non conosco nessuno a cui l’intelligenza emotiva non serva. Non parliamo abbastanza delle nostre emozioni. Pensiamo che siano una debolezza ma è una sciocchezza perché sono invece una forza. La nostra società è disumanizzata, vive di “big data”, numeri, teorie e generalizzazioni. Così diventa facile dimenticare le persone. I numeri ci rendono insensibili: pensi ai rifugiati. Leggere “diecimila rifugiati” non fa nessun effetto. Ma sapere il nome, l’età, i sogni, anche di un solo rifugiato ci fa toccare con mano quanto è importante l’uomo, quanto siamo tutti simili».
In definitiva le storie sono un modo per essere meno soli?
«Certo, per questo dico che le parole sono magiche. Creano connessioni, ci rendono più consapevoli, più umani. Raccontare storie ci allontana dalla teoria e ci porta a casa: una terra, quella delle storie, che tutti noi, umani e alberi, possiamo condividere senza frontiere».