Corriere della Sera, 12 settembre 2021
I Romano raccontano la Merkel
Nei recenti libri su Angela Merkel (e non sono pochi) spicca quello di Sergio e Beda Romano ( Merkel. La Cancelliera e i suoi tempi, Longanesi) per aver assunto un punto di vista unitario (la politica estera, e la possibile sopravvivenza dell’Unione Europea). Non che questo punto di osservazione venga trascurato dagli altri (Paolo Valentino, Michael Braun, Massimo Nava eccetera) che hanno «studiato» la Cancelliera: ma nel caso del libro di cui qui si discorre conta molto la conoscenza diretta (specie nel maggiore dei due autori) di come hanno funzionato, e ancora funzionano, le relazioni internazionali.
Di un politico che ha governato per ben 15 anni il Paese più importante d’Europa è d’obbligo chiedersi quale sia stata la caratteristica dominante, se non addirittura la «strategia». Più che in altri Paesi, in Germania la vicenda storico-politica, almeno a partire dalla guerra austro-prussiana del 1866, è stata scandita dal succedersi di personalità forti che hanno governato con in mente un ben preciso «disegno»: da Bismarck a Guglielmo II, da Stresemann a Hitler, da Adenauer a Brandt eccetera. E spesso per ciascuno di loro si è parlato di «era». Giustamente i Romano hanno preferito dire «la Cancelliera e i suoi tempi», con ciò ridimensionandone un ruolo «demiurgico» («l’era Bismarck», «l’era Stresemann» sono espressioni che segnalano e riconoscono tale ruolo demiurgico). Non è una scelta casuale. Il bilancio che infatti i due autori traggono è: «(Merkel) non ha mai forzato il destino, lo ha tutt’al più favorito». E ciò dicendo respingono, contestualmente, la possibilità che di lei si possa parlare come di «pragmatica» o addirittura «opportunista».
Poiché il rapporto con l’Ue è uno degli ambiti della politica Merkel, cui più gli autori hanno prestato attenzione, può essere utile rievocare come Merkel si è mossa nel momento più critico della recente storia europea: quando ha preso la sofferta decisione di mettere in soffitta i «parametri di Maastricht» ed il connesso «patto di stabilità». Il 4 aprile 2020, il redattore capo dello «Spiegel», Steffen Klusmann, in un articolo intitolato Il rifiuto tedesco degli eurobond è gretto e vigliacco, rievocò una sortita insolitamente aspra di Angela Merkel risalente al 2012: «Gli eurobond non ci saranno finché sarò in vita!». Come sappiamo, le cose nell’anno cruciale 2020 hanno preso tutt’altra piega e anche i seri e compassati quotidiani economici danno ormai per sospeso sine die lo strangolatorio «patto di stabilità». Certo, gli eurobond non sono nati ma le cataratte si sono spalancate ed è prevedibile (anche se non è ammesso apertamente) che il superdebito riveniente dai fondi straordinari europei non sarà mai «rimborsato» (se non si vuole una rovinosa bancarotta dei Paesi più indebitati). Merkel, anche sotto l’urgere della grave crisi sanitaria, ha cambiato rotta ed è stata decisiva nel farla cambiare ai «virtuosi» di piccole dimensioni. Il 22 luglio 2020, su questo giornale Mario Monti aveva fatto notare che i fondi («Recovery») sarebbero stati effettivamente elargiti solo previo consenso dei singoli Parlamenti dei 27 Paesi, virtuosi inclusi: è chiaro invece che ormai anche queste «forche caudine» sono saltate. Se Merkel non avesse (previa qualche concessione sottobanco a Orbán) avallato tutto ciò, questa evaporazione delle punitive regole europee non ci sarebbe stata. Direi che la definizione di Merkel «pragmatica» (p. 163) è calzante, non certo «machiavellica» (p. 165), almeno nel corrente significato. Morale «politica» o – per meglio dire – bilancio di questi 15 anni è dunque che davvero l’andamento della (scricchiolante) Unione è in mano tedesca. Giustamente però i due autori sottolineano la sostanziale consonanza di Merkel col gollismo temperato di Macron, in particolare sulla necessità di una effettiva autonomia dagli Sati Uniti a 76 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale. (Quel vincolo di subalternità è anacronistico: è come se l’Europa del 1891 fosse ancora ancorata ai patti e agli impegni stretti nel 1815 al Congresso di Vienna).
Durerà questo orientamento franco-tedesco dopo l’uscita di scena della Merkel e l’ignoto destino di Macron? Nei recenti libri su Merkel si insiste sulla «stabilità» della politica interna tedesca, che certo è garanzia di continuità. Ma è bene ricordare che la chiave di volta della stabilità tedesca è nel saggio sistema elettorale che quel Paese si è dato. Quando la scena politica era occupata di fatto da due soli partiti (socialisti versus cristiano-democratici con appendice bavarese) non vi era problema. Oggi che le forze politiche che contano e approdano in Parlamento sono almeno cinque, il sistema proporzionale (con sbarramento) impone la coalizione Cdu-Spd, cioè impone una prevedibile stabilità che non ha alternative. È la cosiddetta coalizione di Weimar (socialisti e partito cattolico).
Gli autori di questo libro dicono che Merkel ha dato la sensazione di non avere un proprio disegno. Verissimo; ma ha avuto il buon senso di capire che la rigidità è la ricetta per affossare l’Unione Europea.