Corriere della Sera, 12 settembre 2021
Intervista a Franco Bragagna
Franco Bragagna, pensa di essere diventato un personaggio, a maggior ragione dopo le telecronache degli ori azzurri nell’atletica ai Giochi di Tokyo?
«Un po’ sì, ma lo capisco poco. E me ne rendo relativamente conto».
A freddo come rivive quelle emozioni?
«L’oro di Tamberi nell’alto è arrivato a ridosso di quello di Jacobs nei 100. Ha rubato spazio alla preparazione della gara regina, ma è stato bellissimo e umano, con l’abbraccio tra Gimbo e Barshim, due amici che hanno scelto di accomunarsi nel trionfo. Jacobs? Dopo il quarto di finale pensavo al podio, dopo la semifinale ho immaginato il successo».
E quando è scattato bene dai blocchi...
«Il cinese non contava, ho capito che andava a vincere. Mi sono concentrato su di lui, sul traguardo mi è venuto lo strillo “Marcello!”, quasi fossi Anita Ekberg che si rivolgeva a Mastroianni dalla Fontana di Trevi. Mi è scappato un errore tecnico: anziché “signori miei” ho detto “Signore mio”. Per non correggere, ho proseguito. Uno sbaglio: la religione va evitata».
Poi è venuto il trionfo della 4x100.
«Quando ho visto la curva di Desalu ho capito che si andava sul podio e ho commentato “sta succedendo qualcosa”. La Gran Bretagna ha cambiato meglio, ma è spuntato un Tortu diverso che ha tirato fuori tutto».
Quella della staffetta è stata la telecronaca perfetta?
«Non saprei. Un oro nella 4x100 è perfino più sensazionale perché lo vincono in quattro. Ma Jacobs con la sua impresa aveva reso meno impossibile il successo: così l’emozione è stata inferiore».
Invece l’hanno criticata perché quando ha vinto il marciatore Massimo Stano ha ignorato il titolo 2008 di Alex Schwazer. Come mai?
«Perché il mainstream segue concetti sbagliati e pompati dalla credenza fallace di altro. Ho documenti su quanto dico. C’è una sentenza nella quale lui ammette cose che poi finge di non ricordare. Schwazer ha chiuso persino con i suoi affetti, come Carolina Kostner».
Per anni ha commentato un’atletica minore: questa è una rivincita?
«Un po’ sì. Ero arrivato a parlare di “italianuzzi”, nonostante a volte spuntasse l’impresa che salvava la baracca».
Ci racconta il Franco Bragagna bambino e i sogni che aveva?
«Di madre veronese, sono nato a Padova perché papà, infermiere, purtroppo mancato a 42 anni, lavorava lì. Ci trasferimmo a Bolzano per esigenze familiari: mi ritrovai nella valle dell’Eden, mi sento bolzanino fino in fondo. Che cosa sognavo? Di fare proprio il telecronista. Amavo ogni sport, tranne il calcio anche se lo gioco ancora per divertimento. Ma dagli 8-9 anni ho pensato, vedendo le tv straniere, che l’Italia esagerasse per il pallone. E questo pur tifando per l’Inter del “Mago” Herrera».
In quel periodo c’era la Rai del Mago Zurlì, di Febo Conti...
«E di altri stupendi programmi. Seguivo tutto, era il vero servizio pubblico: molti atleti si sono dedicati allo sport conoscendolo sulla Rai. A Bolzano, però, nacque l’ente che tutelò, tramite le tv straniere, la conoscenza del tedesco: mi avvicinai così a più sport».
A Bolzano c’era (e c’è) l’hockey di alto livello.
«Per seguirlo bastava piazzarsi fuori dal palaghiaccio e aspettare un ipotetico genitore che ti portasse dentro. Grazie all’hockey cominciai con Radio Quarta Dimensione, sostituendo un amico chiamato alla naja. Avevo 16 anni, ne dimostravo la metà: il capo mi squadrò e disse “facciamo una cosa breve”. Parlai per 50 minuti su tutto lo scibile sportivo: assunto».
Ricorda la prima diretta dal vivo?
«Fu in mezzo agli ultras, con un “baracchino” pirata: improvvisai, andò bene e fui promosso radiocronista. Poi nel 1990 entrai in Rai, collaborando ancora con Telemontecarlo per gli sport invernali».
Qual è la sua hit parade dei telecronisti?
«Bruno Pizzul è un gigante. La sua attualità è ancora pazzesca: tempi perfetti sulla partita, enfasi corretta, espressioni rivoluzionarie come “folleggia in area”. Aggiungo Aldo Giordani, mito della pallacanestro: ero anche suo collaboratore a Superbasket, aspetto sempre il primo pagamento...».
Non cita Paolo Rosi?
«Non è stato un riferimento, conosceva poco l’atletica anche se pause e voce erano un proclama. Il fenomeno era piuttosto Sandro Vidrih di Telecapodistria, numero 1 pure negli altri sport».
Dov’era l’11 luglio 1982 quando l’Italia vinse il Mondiale di calcio?
«A casa mia, da solo. Vicino alla Upim di Bolzano giocavo a calcio per strada con gli amici. Poi vedevamo le partite assieme. Ma sentivo sciocchezze, per cui quel giorno mi rintanai con 3 televisori: uno sintonizzato sulla Rai, uno sulla tv tedesca e il terzo sulla tv austriaca. Volevo confrontare Nando Martellini con gli altri: ero già... un malato».
L’incidente e l’amnesia
Al risveglio dopo una caduta sulle scale è come se fossero saltati dieci anni di ricordi: non ho ricostruito tutto, gli psicologi mi hanno detto di non farlo
Amici e nemici: nulla da dichiarare?
«Rino Icardi mi prese sotto l’ala: noi sudtirolesi, o altoatesini che è poi lo stesso, eravamo una succursale per gli sport invernali e per quelli “indigesti”. Marino Bartoletti voleva che seguissi lo sci negli anni di Tomba, ma preferivo il fondo. Fu invece Ezio Zermiani a propormi per l’atletica. Nemici? Non vorrei citarli, ma ho superato una querela di Fabio Caressa: pratica archiviata con mia soddisfazione».
Il 5 gennaio 1991 le capitò un’esperienza pazzesca: ce la racconta?
«Non ero in turno, ma mi ci misero. Verso le 23 me ne andai e scivolai nel giro-scale esterno della redazione. Rimbalzai, rimasi semi-svenuto al freddo. Quando mi svegliai riuscii a trascinarmi giù. Ma nella memoria s’era formato un buco. Dieci anni saltati: papà era morto, io ero convinto che fosse ancora vivo. Non ho ricostruito tutto: nelle sedute psicologiche mi dissero di non farlo. La materia successiva ha costruito su quella precedente».
Lei è bolzanino della parte italiana.
«Sono però cresciuto con il figlio di un macellaio di lingua tedesca. Eravamo vicini di casa, nel cortile organizzavo le Olimpiadi rionali. Poi abbiamo praticato l’atletica – io ero una “pippa” – e giocato a calcio nella squadra di Hubert Pircher. Sono cresciuto con la visione dell’altro, oggi non è più così».
La questione sudtirolese ha generato anche fenomeni pericolosi.
«Nelle scadenze elettorali c’è chi punta su differenze che possono dare consenso. Invece ho sempre amato i rapporti interetnici: ero per Alexander Langer e quando si suicidò scoppiai a piangere sull’aereo che mi portava ai Mondiali di atletica di Göteborg. Nel mio ideale di Alto Adige una lingua vale l’altra».
Come vede l’Italia?
«Con un po’ di sufficienza, è un mio difetto. Non è vero che in Alto Adige funziona tutto, però il bilinguismo ha dato un vantaggio nella qualità della vita: si è creato un sistema sociale più vicino alla Mitteleuropa».
Quali sono le caratteristiche di un buon telecronista?
«Ciò che dici va sancito dall’interesse giornalistico; poi come lo dici, è un altro discorso. Devi raccontare con entusiasmo: se non l’hai come dote naturale, sforzati di modificarti».
Va di moda essere istrionici...
«Non lo condivido. E non sopporto né le cadenze regionali, pur amandole extra microfono, né espressioni come “i nostri” riferito agli italiani. Infine non puoi vendere per strepitosa una partita piatta: ritmo e tono di voce devono adattarsi, ricordando però che lo sport può infiammarsi all’improvviso».
Quindici presenze olimpiche: quali i Giochi indimenticabili?
«Tokyo 2020 anche per i punti negativi e i risvolti esterni di un’Olimpiade-non Olimpiade, priva di pubblico: raccontarla non è stato facile, ma è stato un privilegio. Poi Lillehammer 1994 per tanti aspetti, anche umani. Infine Sydney 2000, bella perché in pace, surreale, fuori dal mondo».
I suoi sport principali, atletica e fondo, sono stati spesso coinvolti nel doping.
«Odio l’illecito. Nella vittoria da estasi della staffetta azzurra maschile di fondo a Lillehammer c’è un dettaglio che rende tutto meno fantastico: una sentenza disse che quel gruppo usava sostanze non consentite, ma ci fu l’assoluzione perché all’epoca in Italia non esisteva una legge sul doping».
Qual è il suo campionissimo?
«Usain Bolt, il più grande. A breve distanza metto Michael Phelps: ha vinto di più perché aveva più gare».
Quale invece l’atleta sottovalutato?
«Adolfo Consolini. Ha rappresentato una storia importante anche sul piano sociale e del costume».
C’è una cosa di cui va fiero, al di là della professione?
«La vita in salita che ho affrontato e la mia famiglia. A 15 anni, morto papà, sono entrato alla Zurigo Assicurazioni, conciliando il lavoro con gli studi di ragioneria. Quanto alla famiglia, ho avuto 4 splendidi figli, due maschi e due femmine, dalla stessa donna – cosa non da poco —: ho conosciuto mia moglie facendo l’animatore in villaggi turistici della costa adriatica».
Perché si parla male della Rai?
«Perché si parla male dell’Italia. È lo specchio del Paese: è un’azienda troppo politicizzata che sconta l’idea, anche peregrina, che nell’impiego pubblico si lavora poco e male».
Non è vero che in Alto Adige funziona tutto, ma il bilinguismo ha dato un vantaggio nella qualità della vita: si è creato un sistema sociale più vicino alla Mitteleuropa
«Non lo so, ormai cambia in tempi rapidi: la prossima televisione sarà quella fruibile ovunque. Quindi più streaming e pay per view: la sacralità dei divani, che si sfonderanno di meno, è già passata».