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 2021  settembre 12 Domenica calendario

La Gabanelli intervista Francesco Greco


Dal caso Storari al processo Eni: Francesco Greco, il capo dei pm milanesi, parla al Corriere. «Davigo e i verbali? – dice – Fatti imbarazzanti. C’è chi vuole colpire la Procura simbolo». E aggiunge: «C’è un cambiamento culturale della magistratura, sempre più corporativa»
N ella sua lunga carriera iniziata a Milano alla fine degli anni ’70 come pm, e che a Milano si chiuderà a novembre come Procuratore capo, si è guadagnato il rispetto persino dei suoi imputati, anche quelli che ha mandato in carcere. Ascoltato dal potere politico per la capacità di indicare strade innovative contro i grandi mali del Paese: l’evasione fiscale e la corruzione. Notoriamente riservato, non ha mai partecipato a un talk televisivo, non ha mai scritto un libro. Poi è comparso in scena l’avvocato Amara e per Francesco Greco è iniziata la partita più difficile, quella contro il tentativo di azzerare la reputazione della Procura di Milano. Amara è l’artefice della diabolica operazione di depistaggio all’interno del processo Eni, e il rivelatore della fantomatica loggia Ungheria, dove spiattella una lista di 70 nomi: magistrati, giudici, politici, imprenditori, giornalisti. Il pubblico ministero che segue l’indagine Paolo Storari passa i verbali secretati al consigliere Davigo. La slavina fa il suo percorso silenzioso, e quando emerge, in Procura è valanga: Greco finisce sulla graticola e Storari al consiglio di disciplina.
Alla fine poi al Csm Storari ha raccontato che non c’era nessuna inerzia investigativa, ma che si era consultato con Davigo perché era preoccupato, e quindi non è stato punito. Perché invece lei lo ritiene un atto così grave?
«Tutti eravamo preoccupati, anche di capire il senso della collaborazione di Amara, ma aver fatto uscire dal perimetro del segreto investigativo dei verbali secretati è un atto irresponsabile, tanto più per un magistrato inquirente, e ha pregiudicato le indagini. Mentre ancora c’è nebbia sul dove, quando e perché Storari e Davigo si siano scambiati sottobanco i verbali, una cosa è sicura: l’uscita era nell’interesse di Davigo che non si è preoccupato assolutamente della sorte del procedimento e quando ha lasciato il Csm quei verbali li ha abbandonati. Fatto imbarazzante».
A Brescia però Storari l’ha accusata proprio di voler rallentare le indagini, se non è vero perché il Procuratore non ha ancora archiviato?
«Spero che provveda, visto che la versione di Storari contrasta con la ricostruzione storica dei fatti,che ho documentalmente provato. Nessun sollecito, nessun contrasto, nessuna inerzia è emersa perché non c’è mai stata. Anzi faccio notare che è stato il sottoscritto a sbrogliare la questione delle iscrizioni imponendo quella di Amara e dei suoi sodali per Ungheria, mentre Storari le aveva volontariamente omesse. Infine, quando ha proposto un cronoprogramma investigativo, lo ha potuto eseguire con la collega Pedio senza alcun limite».
Ma se un magistrato temesse che il suo capo voglia mettersi di traverso cosa dovrebbe fare?
«Si seguono le regole e si mette tutto per iscritto. Storari non ne ha rispettata nessuna. E quando si agisce senza un protocollo, puoi variare la doglianza a seconda del bisogno, e il consigliere del Csm può diffamare, così come è successo, senza che ci sia la possibilità di una replica dell’interessato. La consegna clandestina infatti ha consentito di costruire una narrazione totalmente priva di riscontri, poi crollata come un castello di sabbia. Quando i magistrati violano le regole che agli altri si impone di rispettare, è un fatto gravissimo e pericoloso».
Quando ha incaricato Storari di indagare su chi avesse fatto arrivare quei verbali ai giornalisti, lui non si è astenuto perché non pensava che fossero gli stessi che aveva dato a Davigo, e il Csm ha creduto alla sua buonafede. Lei invece non ci crede, perché?
«Penso che sia la Procura Generale che il Csm non avessero la lettera anonima (agli atti delle Procure di Roma e Brescia) che accompagnava la seconda consegna dei verbali al Fatto, e che non lasciava dubbi sulla loro provenienza, riportando nel dettaglio tutti i colloqui avuti da Davigo con soggetti istituzionali e con diversi colleghi, nonché l’indicazione precisa che provenivano dalla Procura di Milano. Anch’io dell’esistenza di questa lettera, detenuta in originale unicamente da Storari, ne sono venuto a conoscenza solo recentemente. Inoltre, trattandosi di stampe di file word, potevano essere usciti solo dai nostri uffici, tant’è che, ipotizzando un hackeraggio, disposi accertamenti tecnici che non vennero eseguiti. Infine quando abbiamo intercettato la segretaria di Davigo, Storari che a quel punto non aveva più scuse, ha acconsentito che si facessero le intercettazioni per un reato che sapeva non essere mai stato commesso: accesso abusivo a sistema informatico»
Storari è noto per la sua scrupolosità e dedizione, pensa che sia stato manipolato da Davigo? E a quale scopo?
«Non lo so e non mi interessa. Ho sempre stimato Storari e avuto con lui un ottimo rapporto. A dimostrazione del clima di fiducia reciproca, lui stesso in una email (successiva alla consegna dei verbali) si oppone alla mia proposta di potenziare il pool investigativo asserendo di trovarsi molto bene a lavorare con la collega Pedio e con me. Quindi mai mi sarei aspettato una coltellata nella schiena. Ha tradito anche la fiducia della collega, ha messo in difficoltà tutte le Procure (Roma, Perugia, Catania, Reggio Calabria, Potenza e Firenze) con le quali collaboravamo in coordinamento investigativo... mentre i verbali “circolavano” per Roma».
Nella lettera di solidarietà a Storari firmata da 56 magistrati su 64 c’è scritto che il problema è la mancanza di chiarezza. Dove nasce questo malessere?
«Premesso che quel documento firmato io non l’ho mai visto e addirittura il Csm ne parla senza che sia stato prodotto, la presunta mancanza di chiarezza era ed è dovuta al fatto che io non ho voluto diffondere direttamente la mia versione dei fatti, che peraltro è l’unica che si fonda su documenti e circostanze storiche. Ho preferito seguire i canali istituzionali. Devo però constatare con amarezza che il rigore non sempre paga, visto che per mesi è stata fatta circolare una versione dei fatti fondata sul nulla, provocando un danno enorme a tutto l’ufficio».
Però rivela anche un disagio che covava da tempo, non crede?
«È vero, ma è difficile essere a proprio agio in un ufficio mantenuto dal ministero e dal Csm costantemente sotto organico sia di magistrati e Vpo (magistrati onorari), che di personale amministrativo. Milano già in partenza ha una pianta organica insufficiente in relazione agli affari e alla popolazione, e ben diversa da quelle di uffici che hanno lo stesso carico di lavoro se non largamente inferiore. Le Istituzioni non hanno mai risposto alle mie richieste ufficiali, né hanno sentito il dovere di sanare, nonostante gli impegni presi, l’improvvisa uscita di sei magistrati verso la Procura Europea. Ad oggi, mancano ben 14 magistrati!».
Non pensa che sia anche un po’ colpa sua se non si è creata quell’integrazione necessaria fra i dipartimenti molto specializzati che lei ha messo in piedi?
«Intanto mi trovi lei un altro posto dove è possibile maturare specializzazioni diverse senza restare inchiodati tutta la vita alla stessa sedia. Detto questo, sicuramente ho commesso errori, a partire dalla volontà (non condivisa da tutti) di modernizzare la Procura informatizzandola, e con la creazione di un dipartimento dedicato ai reati transnazionali. Così come ho sottovalutato la diffusione sempre più estesa di una mentalità che risponde a logiche più burocratiche rispetto a quelle in cui ho maturato la mia esperienza professionale. Probabilmente non ho nemmeno colto il cambiamento culturale della magistratura, sempre più corporativa e autoreferenziale, e che trova il suo contraltare nelle circolari del Csm».
La conclusione del procedimento Eni-Nigeria ha scatenato una serie di polemiche e critiche pesanti al suo ufficio, e adesso il Csm sta verificando se non ci sia incompatibilità ambientale per il pm De Pasquale. Cosa è successo?
«Intanto i processi vengono disposti dal Gup quando ci sono elementi, che evidentemente c’erano. Purtroppo, diversi passaggi di questo processo hanno generato ogni sorta di polemica. È il caso di ricordare che è stato un avvocato dell’Eni (Amara) a intervenire con condotte corruttive (in parte già giudicate con sentenze definitive) nei confronti delle Procure di Trani e di Siracusa per “depistare” le indagini e costruire false accuse nei confronti di diverse persone interessate al processo. Lo stesso avvocato ha anche accusato “de relato” il presidente del collegio giudicante, accuse risultate infondate dalle verifiche fatte dalla Procura di Brescia, e che io stesso avevo registrato come “atti non costituenti notizie di reato”. Sull’accusa di non aver prodotto un video giudicato rilevante dal Tribunale, abbiamo documentalmente dimostrato che gli imputati e l’Eni ne avevano la trascrizione già da più di un anno, e non l’avevano usata o richiesta in sede di ammissione delle prove pur potendolo fare. È stato certamente un processo delicato, ma non diverso da tanti altri, e le complessità vanno affrontate e risolte nel dibattimento, non altrove. Altrimenti a che servono i processi?».
Anche l’appello sarà complicato visto che il suo ufficio non è molto amato nemmeno dalla Procura Generale, tant’è che il procuratore Celestina Gravina ha già detto che questo processo è uno sperpero di denaro pubblico.
«Sarà interessante sentire cosa pensano sul punto i valutatori dell’Ocse che hanno esplicitamente chiesto di aprire i prossimi lavori di valutazione dell’Italia presso la Procura di Milano, proprio perché si è distinta in questi anni nell’applicazione della convenzione di Parigi 97 sulla corruzione Internazionale. Quanto al presunto sperpero di denaro ricordo che la procura di Milano ha portato diversi miliardi nelle casse dello Stato sorreggendo più di una manovra finanziaria, mentre nel processo di appello, la Procura Generale non ha ritenuto di difendere un sequestro di oltre 100 milioni di dollari confermato dalla sentenza di primo grado».
Nella dura lettera di replica ai suoi colleghi lei scrive che si sta approfittando della debolezza della magistratura per colpire la Procura di Milano. A che scopo?
«Questa Procura ha sempre rappresentato l’indipendenza e la libertà dei magistrati. È questo simbolo che deve essere abbattuto. Io non ho mai visto una campagna mediatica quotidiana così compatta e violenta come quella che è in corso in questi mesi, utilizzando la vicenda Storari e l’assoluzione in primo grado dell’Eni».
Secondo lei sono pretesti di un disegno più ampio?
«Veda lei. Se stiamo ai fatti la Procura di Milano rappresenta da decenni un’anomalia, per la capacità di svolgere un ruolo cruciale e sempre innovativo sia sul fronte della legalità politica ed economica nazionale e internazionale, che nei fenomeni criminali che accompagnano il costume sociale. Qui non è nata solo Mani Pulite, qui sono nate le indagini sui nuovi caporali digitali e sul trattamento dei riders, sull’evasione fiscale delle big-tech, sul riciclaggio delle banche internazionali, sulla corruzione internazionale, la tutela dei consumatori dalle truffe delle grandi multiutilities, è stata costante l’attenzione nei confronti della Mafia imprenditrice, dei soggetti deboli e della salute sui luoghi di lavoro. Per alcuni questa anomalia deve finire».
Chi sono questi «alcuni»?
«Il desiderio di avere le mani libere ha accompagnato da sempre parte delle classi dirigenti politiche ed economiche del paese. Saverio Borrelli, consapevole di questa situazione, ci chiese di resistere, cioè di continuare a fare il nostro dovere con responsabilità ma senza compromessi. Controllare la legalità del potere richiede una “tenuta” psicologica che nel tempo logora, e infatti molti magistrati sono diventati insofferenti agli attacchi continui, e certi processi preferiscono evitarli. Ogni volta, c’è sempre qualcuno che dice “bisogna voltare pagina”. È successo in tutti i grandi uffici, ed ora qui, in occasione del mio pensionamento. Tuttavia sono certo che questa Procura non cambierà pelle... almeno me lo auguro».
Pensa che l’origine di tanti problemi sia stata proprio la creazione del dipartimento reati internazionali? Quello che ha portato Eni a processo per intenderci?
«Quello che posso dire è che le condizioni internazionali impongono un rafforzamento del contrasto a questo tipo di corruzione, come lo stesso Biden ha recentemente ribadito nel suo primo memorandum dove dice che la lotta alla corruzione internazionale è un “interesse centrale della sicurezza nazionale”. Del resto i trattati sottoscritti dall’Italia quali la convenzione di Parigi e la convenzione Onu di Merida sulla lotta alla corruzione stanno dentro la nostra Costituzione. Il tentativo di decapitare la Procura di Milano va in controtendenza, e sarà il caso di riflettere sulle conseguenze anche internazionali: non a caso il terzo dipartimento è stato indicato dal Governo all’Ocse come l’unica best practice italiana nel contrasto alla corruzione internazionale».
Il Csm nel luglio scorso ha messo in discussione il suo modello organizzativo presentato già qualche anno fa. Perché proprio ora?
«La coincidenza è curiosa, ma quello che trovo singolare è l’aver affermato che non avevo analizzato la realtà criminale del territorio dove lavoro da 43 anni! Con la nuova organizzazione abbiamo ridotto, ogni anno, la pendenza di 10.000 procedimenti (anche in periodo Covid), e il modello che abbiamo costruito è in grado di aumentare la produttività pur mantenendo l’elevato standing nei procedimenti specializzati. Ma nelle valutazioni evidentemente i risultai non contano!».
I risultati della gestione Greco si leggono sul bilancio sociale della Procura. Sul fronte dei reati fiscali, negli ultimi 3 anni sono stati recuperati ben 5,6 miliardi. Hanno pagato i giganti della digital economy, della moda, siderurgia e grandi gruppi finanziari, grazie soprattutto all’attivazione di un network istituzionale con la Guardia di Finanza, l’Agenzia delle Entrate e delle Dogane, caso unico in Italia. Focus sulle grandi banche con sedi in Paesi con segreto bancario o fiscalità privilegiata: sono stati individuati circa 200 enti che ospitavano enormi capitali frutto di evasione fiscale. L’inchiesta sui riders ha dimostrato che svolgono a tutti gli effetti un lavoro subordinato ed è scattato l’obbligo di assunzione. Le società di servizi che utilizzano lavoratori in nero sono state costrette a rientrare nella legalità, anziché passare dal sequestro che poi le porta al fallimento. L’alta specializzazione ha reso le rogatorie internazionali più rapide, proprio perché vengono gestite da un dipartimento dedicato. Il referendum sulla liceità dell’eutanasia origina dall’incostituzionalità della legge sollevata dalla Procura di Milano sul caso Cappato (suicidio assistito).
In quegli uffici ha passato tutta la sua vita professionale, qual è il suo bilancio personale?
«Non sono un sentimentale, ho avuto la fortuna e, penso, la capacità di condurre moltissimi processi interessanti, anche per la storia di questo Paese. Certo quella lettera dei colleghi mi lascerà un segno, ma per formazione o per abitudine guardo sempre avanti... e le idee hanno molte cose da fare».