la Repubblica, 12 settembre 2021
Intervista a Sorrentino
VENEZIA – Non è difficile vedere nelle lacrime di Paolo Sorrentino sul palco della Mostra il ragazzino che racconta in È stata la mano di Dio, Gran premio della giuria. Ringrazia gli amici, la moglie Daniela «che mi sopporta da vent’anni», i figli. Evoca due immagini che non ci sono nel film (in sala il 24 novembre e poi su Netflix): «In una si vede Maradona che ringrazia da un campo di calcio, e questo forse è il più grande premio per lui. L’altra scena mi riporta al giorno del funerale dei miei genitori. Il preside mandò solo quattro ragazzi, non tutta la classe. Ci restai male, ma non ha importanza perché oggi è venuta tutta la classe, che siete voi». Fuori dal Palazzo del cinema ha l’aria trasognata.
Ha fatto dediche molto belle.
«Purtroppo le ho raccontate male, sono più capace a scrivere che a parlare. Sono idee che mi sono venute troppo tardi per metterle nel film».
Viene da Telluride, dove ha avuto una grande accoglienza.
L’hanno invitata a molti altri festival.
«Sì, c’è l’intenzione da parte nostra, dei produttori, di far camminare questo film più a lungo possibile e ci proveremo. Questo premio è uno straordinario inizio».
È un film personale che riunisce la maturità del regista allo spirito dell’adolescente che ha conservato.
«È stato un procedimento, a dispetto di quel che pensavo, gioioso. Fare questo film è stata una piacevole oasi di spensieratezza, anche come reazione ai tempi cupi che abbiamo vissuto di recente».
Cosa le ha lasciato il film?
«Ci vorrà tempo per capirlo, sono piuttosto rallentato. Di sicuro dopo essere stato un lungo monologo interiore, condividere questa esperienza è di aiuto. Non liberatorio né terapeutico, ma parlandone inizio ad annoiarmi dei miei dolori e sto scivolando in una discreta felicità».
È tornato nella sua Napoli dai mille colori.
«Napoli è un’espressione acuita di vitalità, il luogo ideale per liberarsi dalla cupezza. Una città che da sempre, forse perché la gente arriva dal mare, ingloba tutto e riduce tutto a quella che è la famosa napoletanità. È una specie di caverna che accoglie tutto, mastica tutto e ritira fuori in maniera molto recitata. Perciò la recitazione napoletana trova posto nei grandi appuntamenti dell’arte».
Filippo Scotti, il suo alter ego, ha vinto il premio Mastroianni.
«Trovarlo era decisivo. Sono stato fortunato perché Filippo, oltre a essere bravissimo, possedeva negli interstizi delle caratteristiche aderenti al personaggio».
Sul palco ha raccontato: “Qualcuno un po’ antipatico mi dice perché fai un altro film con Toni Servillo, ora gli posso dire guardate dove sono arrivato a fare film con Toni Servillo”. Siete al numero sei.
«Toni è una figura paterna, un fratello maggiore, non abbiamo una grande differenza d’età. È un amico e un attore che mi ha sempre aiutato moltissimo nel lavoro e spesso anche nelle vicissitudini della vita, mi fido ciecamente, così come uno si fida ciecamente dei proprio genitori».
Nel film ci si ritrovano gli adolescenti degli anni Ottanta, ma anche quelli di oggi».
«Spero di sì, sarei felice se lo vedessero i ragazzi, se ci trovassero un barlume di ottimismo e lo adattassero alla loro vita. Il film dice una cosa semplice: a una certa età il futuro sembra non esserci e invece c’è. Spero che lo veda il maggior numero di ragazzi possibile e ritengo di essere nel posto giusto con Netflix, a cui accedono moltissimi giovani da tutto il mondo».
Cos’è oggi il cinema per lei?
«Anni fa mi schermivo, fingevo che non fosse importante. Ho capito che l’unico momento in cui sono a mio agio nel mondo è l’intervallo, da quando dico “azione” allo stop. In quel momento sto dove devo stare».