la Repubblica, 12 settembre 2021
La via selvatica
Si dice che un giorno Leonardo da Vinci abbia inventato un’etimologia: «Salvatico è chi si salva». Trovata suggestiva, perché davvero per cavarsela nelle situazioni estreme ci sembra che occorra un po’ di “bestialità” – cioè di istinto, occhio, fiuto, orecchio, capacità di azione non meditata. Non so quanto fosse consapevole del precedente leonardesco ma trent’anni fa un ingegnere e filosofo moderno che si chiamava Silvio Ceccato, pioniere della cibernetica italiana, proferì una massima basata sul medesimo gioco etimologico: «Uomo informato, mezzo salvato. Uomo informatico, mezzo salvatico». Che gioco stanno giocando, qui, le parole?
“Selvatico” (o “salvatico”) è il termine che si usa innanzitutto per qualificare le piante spontanee e non coltivate; in secondo luogo per gli animali non “domestici” o “addomesticati” da noi; infine per le persone non socievoli. “Selvatico” è quindi qualcosa che fa a meno dell’essere umano. Quasi sinonimo è “selvaggio”, che aggiunge una connotazione di minaccia. Un animale selvatico si direbbe indifferente all’uomo; uno selvaggio ce lo figuriamo pronto ad assalire.
Nella selva incontriamo la natura a cui risultiamo indifferenti, che ospita il subumano (perché noi consideriamo inferiori le forme di vita che non condividono il nostro tipo di intelligenza) ma che nel suo insieme è tanto vasta e dantescamente “forte” da configurarsi come un sovrumano: una complessità ingovernabile, un mistero impenetrabile. In una selva sentiamo di appartenere a una specie, l’umana, molto recente; una specie teppista, che nel contesto terrestre è l’enfant terrible: tanto dannosa quanto capricciosa, tanto volubile quanto non autosufficiente.
Ognuno dei relatori convocati ad Alba da Matteo Caccia ha la sua “via selvatica”. Quella di Ambrogio Beccaria non è un intrico vegetale ma è il mare, che pone a un navigatore come lui una tale quantità di incognite da impedirgli di poter far conto su una completa intelligenza della situazione (anagramma: Ambrogio Beccaria = “Cambio barca e giro”).
Il “muro” dell’anagramma dell’allenatore Mauro Berruto (“A muro, turberò) è quello della difesa nella pallavolo, l’unico sport che punisca le azioni individuali. La sua selva è quella delle relazioni. La squadra è una collettività che ha il senso dell’imprevedibile unicità di ogni evento. Nell’epoca dell’essere sé stessi in “resilienza”, c’è poi un monito: non si attraversa una selva rimanendo uguali.
Quella di Mia Canestrini è una selva vera e propria, quindi un bosco. Ma una lupologa come lei vive con un piede nel selvatico e uno fuori: non vuole addomesticare il lupo, ma vuole che la vita lupesca si preservi selvatica e cerca umanamente di crearne le condizioni. L’anagramma di Mia Canestrini è: “Scannare i miti”. Mite è l’agnello, la preda tradizionale del lupo. Mito è che il lupo sia proprio quello che ci raccontano tante fiabe e leggende antiche. L’esperto non è l’erudito che vuole conoscere tutte le fronde della selva: è colui che conosce il modo per descriverla e attraversarla. Lo afferma lo storico e puntuto polemista Franco Cardini (anagramma: “Narri ficcando”) confutando il luogo comune dilettantesco per cui il Medioevo sarebbe una selva oscura fra i distinti splendori dell’età classica che l’ha preceduto e del Rinascimento che gli ha posto termine. La selva del rapper Tommy Kuti è invece quella delle diverse provenienze etniche che si incontrano e scontrano nella società contemporanea. La contaminazione che preoccupa i puristi, cioè i razzisti, è principio evolutivo; il rap, è un’arte composita e pluriliguistica, un’arte della mescolanza.
Selvatica è la situazione in cui devi tener in conto una quantità di incognite ma anche la certezza di non poterle controllare tutte, una condizione che richiede un’assoluta presenza. Per mestiere Andrea Loreni se la va a cercare, poiché è un funambolo delle grandi altezze (anagramma: “Ronde ne l’aria”). Una selva di biodiversità è quella in cui è necessario inoltrarsi per la scrittrice Federica Manzon (anagramma: “Marciando fe’ zen”). Scrivendo e camminando si attua un distacco (che l’anagramma chiama opinabilmente “zen”) dalle solite parole, dalle lingue conosciute, dalle realtà consuete.
Le luci dell’anagramma del meteorologo Luca Mercalli (“Calmar le luci”) sono quelle artificiali che l’età moderna ha eletto a simbolo della sua potenza, abdicando alla propria selvaticità. Ma la negazione della selva non è l’asfalto o il cemento: è l’orto, è il giardino. Accudimento, trasformazione, adattamento, intelligenza reciproca: l’interazione fra esseri umani e piante è un rapporto di delicatezza. Ce lo insegna l’architetto di giardini Paolo Pejrone, di cui l’anagramma afferma: “Propone ajole”.
Una volta il limite era segnato dalle Colonne d’Ercole. Oggi l’ignoto può essere anche vicino a noi e lo si può raggiungere e superare con uno sport estremo ma anche nella vita quotidiana. Lo dice l’esploratore Emilio Previtali ed esclama, via anagramma: “Il limite evapori!”. Per la grande chef Ana Ros fra la natura e la cultura l’importante è la transizione: non ci si illuda creare, non ci si illudersi di non poter distruggere; si sappia di poter trasformare.
In cosa? L’anagramma, “Or sana”, è deludente anche se lei stessa parla del “mangiar sano”.
Ma ecco che restare “sani e salvi” nella selva si può: consapevoli e istintivi, in movimento e in equilibro, coltivati eppure selvatici.