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 2021  settembre 12 Domenica calendario

Essere una ventenne a Kabul


KABUL – Maryam è una ragazza di 20 anni che abita a Kabul. Da quando i talebani sono andati al potere, si trova a vivere in un Afghanistan profondamente mutato. Aveva una vita sociale attiva, ma per non mettere a repentaglio la sua vita non entreremo nei dettagli. Ci dice di essere molto preoccupata riguardo ai rastrellamenti dei talebani casa per casa per arrestare e punire donne, attivisti e dissidenti, anche se su questo afferma di non avere ancora informazioni attendibili. «Abbiamo sentito dire che sono state arrestate diverse attiviste e che inizieranno a fare delle ispezioni casa per casa e siamo sicure che lo faranno».
Non ricorda nulla del precedente regime talebano, ma sa che in quel periodo suo padre fu arrestato e rimase in prigione per più di un anno, che a sua madre non era permesso lavorare fuori casa e che sua sorella maggiore dovette abbandonare gli studi dopo la chiusura della scuola femminile: «Eravamo piccole all’epoca, ma sappiamo dai libri e dai video quello che i talebani fecero allora al popolo afghano con ogni sorta di oppressione, specialmente contro le donne. Le donne furono le principali vittime della guerra e del regime talebano. Non avevano nemmeno il più sacro diritto, ovvero quello all’istruzione. Per uscire di casa bisognava essere accompagnate da un Muharram (membro maschile della famiglia, ndr) ed era obbligatorio indossare il burqa».
Maryam racconta che sua sorella, che all’epoca era una bambina, venne frustata più volte per non essersi coperta il viso. Sottolinea di nuovo che non ricorda nulla del tempo dei talebani, ma i ricordi di chi le è vicino sono terribili: «Quando mio padre, dopo un anno e mezzo, uscì finalmente dal carcere in cui era stato rinchiuso dai talebani, riconobbe mia madre dalla sua voce. I colpi subiti alla testa gli avevano fatto perdere la vista da un occhio. Verso la fine del dominio talebano, un giorno mio padre uscì di casa e fu arrestato perché non portava la barba abbastanza lunga. Le percosse gli fecero perdere la vista anche dall’altro occhio».
Ora è nuovamente diventato difficile uscire di casa. La sua famiglia non è contenta di vederla uscire, ma lei ha voluto unirsi alle proteste delle donne. «Dobbiamo uscire dalle nostre case», dice Maryam. «Anch’io ho paura. Quando esco, mi sento in pericolo e penso che qualcosa potrebbe distruggermi da un momento all’altro». Non sono solo le donne ad avere questa sensazione, sono terrorizzati anche gli uomini, ovunque. Nella vita quotidiana delle persone si è diffuso il terrore. In città lo si può vedere negli occhi di tutti. Anche al mercato, si incontrano poche donne.
Maryam ripete spesso la parola “paura”. «I talebani che stanno ai posti di blocco sono più magri di me e deboli fisicamente, ma i nostri uomini, pur essendo molto forti, ne hanno paura. Ho raccolto tutte le mie energie per avere il coraggio di uscire, ma dopo pochi passi ho avuto molta paura di un talebano tutt’altro che forte. Prima un vigile urbano faceva fatica a far attraversare la strada a un bambino, ma ora a un talebano basta un cenno della mano perché tutti si fermino e poi riprendano a camminare». La gente ha paura, terrore. «Anche se i talebani dicono di essere cambiati e che non ci saranno problemi in quanto all’istruzione e al lavoro delle donne, il governo non ha ancora fatto nulla ufficialmente e non sappiamo se sia vero o no».
Nonostante vogliano far credere di essere cambiati, sembra che i talebani abbiano iniziato a fare ispezioni casa per casa in alcune zone della città: «Non sappiamo con precisione se sia vero, ma alcune attiviste sono state arrestate e non sappiamo nemmeno dove le abbiano portate». I talebani respingono le accuse, ma la verità non è ancora chiara. «L’esperienza che abbiamo dei talebani ci fa credere che quanto si dice sia vero. Abbiamo perso tutto ciò che avevamo conquistato. In Afghanistan tutto è perduto, ormai, non ho più speranze. Non mi aspetto nessun miracolo che possa cambiare questa situazione. Questo è quello che siamo... una geografia infelice e un popolo disperato. Traduzione di Luis E. Moriones