la Repubblica, 12 settembre 2021
Intervista a Francesco Tullio Altan
Voler bene a Francesco Tullio Altan, per tutti Francesco, significa saper rispettare i silenzi e credere nell’aforisma che dice: “La volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande”. Dove lui, naturalmente, è il riccio, con tanto di aculei, e la cosa grande la tiene per sé. Tra pochi giorni, il 30 settembre, compirà settantanove anni. Nel frattempo ha festeggiato gli ottanta di un compagno di scuola. Una cena tra amici – non pochi –, ricordi che come i guai arrivano tutti assieme a bordo di un velo di nostalgia, ma soprattutto l’allegria del cibo, del vino, delle antiche sere.
«Va bene così», dice, quando gli si domanda di tracciare un bilancio della sua carriera artistica. Si può persino provare a fare un gioco. Il fumetto del marito seduto in poltrona dice: la felicità è desiderare ciò che si possiede. E quello della moglie in cucina replica: e io che mi devo accontentare di ciò che sei. È la vignetta che forse Altan disegnerebbe su se stesso ma è inutile domandargli un’approvazione o una condanna.
Non risponderebbe, per educazione e indulgenza.
Le nostre vite sono imprecise e stratificate come l’Armando, il padrone e migliore amico della Pimpa, che assomiglia un po’ a Walter Chiari nella parodia dei fratelli De Rege, con il naso rubizzo e le mani gialle, lo stesso colore dei bottoni dorati della giacca blu, ma sono, le vite, quelle che ci sono state concesse. Rimpianti non ne ho, dice Altan. «Mi sono fatto portare dalla corrente e non credo che avrei avuto il potere di cambiarne la direzione». Le sue risposte sono essenziali, scarnificate come la sua satira.
Quand’è che tutto è cominciato?
«Ero piccolissimo e mi ingegnavo a raffigurare qualsiasi cosa. Assieme alla lettura il disegno è stata la mia occupazione preferita fin da bambino, anche se il mio primo ricordo è un altro».
Quale?
«Guardi, è soltanto un flash, tanto che mi domando se sia successo davvero o sia frutto della mia immaginazione. Ho due anni e mezzo o giù di lì, siamo a Venezia dove eravamo sfollati dalle campagne di Treviso durante la guerra perché, sa, tutti dicevano che né i tedeschi né gli alleati avrebbero avuto l’ardire di bombardarla. Comunque, sono lì in casa che litigo con mia cugina, finché lei impugna un tritacarne e lo scaglia contro il vetro della finestra che sta alle mie spalle.
Un’esplosione…».
Una scena alla Quentin Tarantino. A quando risalgono
quelle che si possono definire le sue prime strisce?
«Ho cominciato a disegnare qualche storiella alle elementari, ho fatto la quarta e la quinta in un anno solo. In classe eravamo solo in cinque e avevamo un sacco di tempo libero. Avevo ormai abbandonato la lettura del Corriere dei Piccoli ed ero passato ai romanzi di Emilio Salgari. Magnifici, pieni di personaggi dai tratti lussureggianti, ci sentivamo tutti tigri di Mompracem. Mi sono messo a disegnare storielle di pirati, cowboy e indiani, arrembaggi e sparatorie».
Il suo mestiere è occuparsi della vita degli altri?
«In un certo senso sì. Mai in modo aggressivo. Mi interessano le persone comuni, la loro complessa semplicità. Molto più dei potenti».
Si considera una persona comune?
«Penso di esserlo perché non faccio nulla per sembrarlo».
Dunque lei ha disegnato fin qui anche la propria biografia.
«Quella del tempo che ho attraversato senza dubbio. È tutto nel mio archivio, nella casa di Aquileia».
Intuisco in lei almeno due vite.
Quella della satira che riflette pessimismo e quella della Pimpa che è spensierata.
«Sono due mondi diversi. Uno è quello dei bambini che parlano anche con gli oggetti, un pallone, una sedia, un peluche; l’altro quello degli adulti che non sanno neppure parlarsi tra di loro. Sto meglio quando sono in mezzo ai bambini».
Non c’è niente di più comico dell’infelicità, sosteneva lo scrittore Saul Bellow. I personaggi delle sue vignette fanno ridere rimanendo sempre serissimi. Si tratta soltanto di un accurato espediente tecnico?
«Buster Keaton non ha mai sorriso in tutta la sua carriera».
Altan è serioso, timido o nel profondo della sua anima persino un po’ triste?
«Soffro di ciò che gli inglesi chiamano self conscious, l’osservarsi da solo. È difficile spiegarlo nella nostra lingua, ma si tratta di una sorta di imbarazzo interiore che mi colpisce quando mi trovo in pubblico. Guardo me stesso e provo disagio. Non sono triste, sono fatalista».
Però non può negare di essere un solitario.
«È vero. Sono in sintonia con la solitudine, ci sto bene dentro».
Aiuta a riflettere?
«Al contrario, cerco di allontanare qualsiasi pensiero negativo facendo qualcosa di manuale. Mi tengo occupato, come si dice, per non pensare».
Ci sono stati altri mestieri prima di quello di vignettista?
«Forse sì e forse no. Propendo per il no. Ho lavorato qualche anno per il cinema, un territorio di cui non sapevo nulla, dunque non credo possa dire di avere fatto davvero un mestiere. Sono andato alcuni anni in Brasile. Cercavo una mia strada, piuttosto. Ho trovato una compagna e una bambina».
Seguiva una luce, un esempio?
«Mi piaceva l’opera di Jules Feiffer, pittore, fumettista e scrittore americano che ha vinto un Oscar ed è stato anche premio Pulitzer».
Oggi chi si sente di dover ringraziare per il cammino compiuto?
«Mia moglie Mara, il grande amore della mia vita. Mia figlia Kika.
Tenendola sulle ginocchia è nata la Pimpa, mia nipote Olivia che consente alla Pimpa di continuare a esistere. Marcelo Ravoni che mi portò a Linus e, naturalmente, Oreste Del Buono».
Coltiva passioni parallele?
«Sarebbero dei vizi, quindi non ne ho. Anzi, ne ho uno solo, i romanzi gialli, soprattutto quelli di John Le Carré. Ho la fortuna che dopo sei mesi mi sono già dimenticato ciò che ho letto, così posso riprendere in mano lo stesso libro di Le Carré e rileggerlo come se fosse fresco di stampa. Questa si chiama l’eternità del genio. Mi riferisco a Le Carré, sia chiaro».
Eugenio Scalfari fondatore di se stesso, la banana e la bandana di Berlusconi, la camicia bianca, la cravatta rossa slacciata e i pantaloni a sigaretta di un Renzi luciferino, i gradi di caporale sulla giacca militare e la barba mal curata di Salvini, il ciuffone di Conte. Solo per citarne alcuni.
Mario Draghi ha deciso di risparmiarlo?
«È un soggetto ostico, lo confesso. È difficile, per ora, trovare aspetti da attaccare, Draghi è molto misurato e non mi presta il fianco».
Mi sa dire dov’è finito Cipputi?
«Ehhh… Era il 1975, quando l’ho pensato. Da allora è trascorsa un’era geologica e nel lavoro c’è stata una rivoluzione. Cipputi non ha più con chi parlare, si è perduto, forse si è fatto ibernare».
Le donne di Altan sono spesso nude, sempre bellissime e sensuali. Ne è consapevole?
«Ne sono consapevole. E lo sono anche loro, credo».
C’è qualcosa del futuro che la spaventa?
«Ho complessi di colpa assurdi, paure no. Né mi preparo in anticipo alla morte, arriverà e sarà semplicemente la parola fine».
Le sue vignette meritano un museo?
«Non so. Per ora c’è chi le attacca sullo sportello del frigorifero».