Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2021
Giampiero Massolo parla degli interessi cinesi a Kabul e non solo
«Ho una immagine precisa del linguaggio dei corpi e un ricordo netto dei suoni delle parole. Era il novembre del 2008. Eravamo a Washington. Si teneva il G20. Io ero segretario generale della Farnesina ed ero lo sherpa del presidente del Consiglio italiano, Silvio Berlusconi. Il 15 settembre, Lehman Brothers aveva portato i libri in tribunale. Eravamo nel pieno della Grande crisi. Andavano riscritte le regole della finanza internazionale. In quelle riunioni, l’atteggiamento dei cinesi mutò radicalmente. Fino ad allora, nella preparazione dei lavori i loro sherpa erano sempre stati timidi e remissivi. E, in fondo, lo stesso tipo di atteggiamento si replicava, durante i negoziati veri e propri, quando si passava al piano politico. Nel 2007, su impulso del governo tedesco si era tenuto in Germania un G8 a cui la Cina era stata invitata con altri quattro Paesi. Allora, come già in tutte le occasioni precedenti, i cinesi si erano espressi in un inglese stentato. Quella volta a Washington, all’improvviso, cambiò tutto. I cinesi si trasformarono. Diventarono assertivi. Su ogni argomento esprimevano una posizione precisa, a tratti dura e qualche volta non negoziabile. E lo facevano usando un inglese eccellente, migliore di quello di noi occidentali. Mi sono sempre chiesto se, in precedenza, facessero finta di parlare un cattivo inglese».
Giampiero Massolo, ambasciatore, conosce il valore dei dettagli. E ha un senso ironico delle cose, che non sempre appartiene alla mentalità e alle abitudini della nostra diplomazia. Con la sua identità personale e la sua collocazione nello scenario italiano del potere e della responsabilità, è al punto di confluenza di molti circuiti che compongono il nostro dedalo: l’amministrazione dello Stato (il suo mondo di vocazione e di elezione) e l’industria, in cui presiede dal 2016 il consiglio di amministrazione di Fincantieri, le tecnostrutture dello Stato (dal 2012 al 2016 è stato direttore del Dis, il Dipartimento delle informazioni per la sicurezza) e i centri di ricerca (dal 2017 è presidente dell’Ispi, l’Istituto per gli studi di politica internazionale).
Siamo alla Trattoria Arancio d’Oro, in via di Monte d’Oro: «Qui dietro abita José Mourinho, il nuovo allenatore della Roma», spiega Massolo. Non distante da qui, in via Tomacelli si trovavano le redazioni del «Corriere della Sera» e del «Manifesto». Al tavolo vicino al nostro, pranzano due anziani cronisti vestiti come se avessero appena incontrato per una riunione Valentino Parlato o Ugo Stille. Con la loro agiatezza vetusta e azzimata sembrano le vestigia di un’epoca, gli anni 70 e 80, in cui i giornali erano i giornali, tutti sapevano tutto (o fingevano di saperlo) e anche l’opaco era più decrittabile di oggi.
Gli equilibri internazionali sono stati sconvolti dall’uscita degli americani dall’Afghanistan, in un iter già ipotizzato da Barack Obama, secondo la road map poi fissata negli accordi di Doha da Donald Trump e attuata, con una inesorabile rapidità terremotante, da Joe Biden. C’è stata l’instaurazione armata del regime dei talebani. Tutti hanno visto le immagini drammatiche dell’aeroporto di Kabul con le madri che implorano i soldati di prendere i loro figli in fasce e le persone che si aggrappano alle ali dei cargo occidentali in partenza verso l’Europa e gli Stati Uniti per poi cadere nel vuoto. Gli assetti – nella geopolitica e nella geoeconomia – sono in via di mutazione. E, in questo, la posizione della Cina è fondamentale.
Fuori, in questa stagione il caldo romano volge al tiepido. All’Arancio d’Oro i camerieri servono la prima portata: Massolo ha preso una tartare di ricciola con il tartufo, io ho scelto i bucatini con il ragù di coniglio. Per entrambi i piatti, è perfetto un Fichimori: «Un rosso che si beve freddo», sottolinea il presidente di Fincantieri.
L’elemento interessante di Massolo è, appunto, concentrato sulla multidimensionalità del suo sguardo: la geopolitica che dal vecchio mondo delle cancellerie novecentesche è stata trasfigurata dalla caduta delle ideologie e dalla globalizzazione ora in crisi, la geoeconomia rimodulata dalle nuove gerarchie industriali e finanziarie in via di determinazione fra l’Occidente e l’Oriente, la nuova condizione – paradossalmente insieme centrale e minoritaria – delle multinazionali come la “sua” Fincantieri: «La complessità di un organismo come Fincantieri è data dalla simultaneità e dalla compresenza di elementi industriali e finanziari, di mercato e geopolitici, senza dimenticare il rapporto con la manifattura nazionale ed europea, dato che di fatto Fincantieri è un organizzatore di tecnologie e uno stimolatore di filiere: ogni volta che ci muoviamo con un progetto o una commessa, esiste una ricaduta di competenze e di innovazione che fertilizza il tessuto industriale italiano».
Scorre il Fichimori. Ogni percezione, in questo momento, è turbata dall’Afghanistan: «La condizione è molto complessa. L’instabilità è multipla: l’orografia ha trasformato quel Paese nella tomba degli imperi e oggi rende assai difficile per i talebani controllare da Kabul l’intero territorio, il narcotraffico non è mai cessato, la progenie di Al-Qaeda e dell’Isis non si è estinta ed è destinata a rafforzarsi o ad assumere nuove sembianze. La povertà è miseria: la diminuzione dei trasferimenti finanziari occidentali creerà una massa di diseredati e di profughi, pronti a riversarsi all’estero. I russi e i cinesi sanno bene che l’instabilità è una incognita. E temono che il contagio del radicalismo islamista possa creare, a loro, problemi interni. La situazione, in particolare per i cinesi, è ambigua: l’Afghanistan è una significativa opportunità, ma anche un enorme rischio. All’estero la loro strategia è sempre di lungo periodo. Ha poco a che spartire con il nation building e la politica dei trasferimenti finanziari degli americani e degli europei. Di sicuro ai cinesi interessa l’Afghanistan. Non soltanto per le infrastrutture che possono costruirvi e con cui possono condizionare la leadership talebana. Ma anche per le terre rare e le risorse minerarie che l’Afghanistan custodisce nelle viscere delle sue montagne. A livello globale, le terre rare sono controllate in misura significativa dai cinesi e sono fondamentali nell’assetto del capitalismo manifatturiero internazionale. I cinesi, nella loro capacità di giocare sui tanti tavoli dell’economia e dell’industria, della politica e della cultura, hanno chiara la consapevolezza che si tratta di una scommessa, appunto, ambigua: l’Afghanistan ha una connessione diretta con lo Xinjiang, la regione cinese dove vivono gli Uiguri, l’etnia turcofona di religione islamica sottoposta periodicamente alla repressione di Pechino».
Di secondo, Massolo chiede una insalata verde e rucola con avocado tagliato, condita con limone e olio. Io, invece, scelgo gli straccetti di manzo, accompagnati da una frittura di fiori di zucca.
La vita di Massolo è particolare. La sua specificità è la persistente aderenza – biografica – a diverse forme salienti assunte dai fenomeni storici. Prima la divisione del mondo fra il blocco comunista sovietico e il blocco democratico occidentale. Poi, l’intreccio fra la laicità dello Stato italiano e il cattolicesimo nella forma del Vaticano. Quindi, con la caduta del Muro di Berlino, la transizione italiana negli anni 90 e negli anni Duemila, quando Massolo ha operato nei gangli vitali della cosa pubblica. «Mio padre Carlo e mia madre Giuseppina – racconta – mi hanno avuto entrambi a più di 40 anni. Allora non si usava: per l’epoca, erano anziani. Mi hanno cresciuto con l’idea che non c’era tempo, che dovevo fare presto, che non potevo permettermi di rallentare. In fondo, sono stato coerente con quell’impulso iniziale: a neppure 53 anni, nel 2007, con il governo Prodi sono diventato il più giovane segretario generale della Farnesina. Mio padre serviva come funzionario all’ambasciata italiana in Polonia. Questo mi ha permesso una educazione a cavallo di due mondi. Sono nato a Varsavia, nel pieno della Cortina di ferro. E ho vissuto fra la capitale polacca e Roma, ospite soprattutto della famiglia di mia madre, fino ai 21 anni. Poi, entrato in diplomazia, dal 1980 al 1982 ho lavorato all’ambasciata italiana presso la Santa Sede. Era il papato di Giovanni Paolo II. Mi è stato utile conoscere il polacco, in un Vaticano in cui il segretario di Stato era Agostino Casaroli, l’equivalente del ministro degli Esteri era Achille Silvestrini e il segretario particolare del pontefice era Stanislaw Dziwisz. Mi trovavo in servizio il 13 maggio 1981, il giorno dell’attentato a Karol Wojtyla. Dal 1982 al 1985 sono stato primo segretario all’ambasciata di Mosca dove, per la pervasività dei sistemi di sicurezza sovietici, avevi l’impressione di non essere mai solo e dove ho potuto assistere alla sequenza storica, nella catena di comando russo sovietica, Brežnev-Andropov-?ernenko-Gorba?ëv. Al ritorno a Roma, dopo qualche anno all’Unione Europea a Bruxelles, ho avuto la fortuna di stare in osservatori privilegiati: Palazzo Chigi, da Giulio Andreotti a Lamberto Dini, e poi alla Farnesina».
Massolo c’era prima e c’è adesso. Nella capacità del Paese, nonostante i suoi mille deficit storici, di formare un ceto dirigente – di estrazione pubblica – in grado di interpretarlo in senso nazionale e internazionale, di supportarlo e di emendarsi dalle violenze romane, dalle sue cialtronerie da suburra emotiva e dalle sue manchevolezze culturali. Arrivano i caffè. Entrambi evitiamo il dolce esercitando la virtù della misura. Misura che – nel caso di Massolo, punto di confluenza di molti circuiti nel nostro dedalo – è il contraltare simbolico e antropologico di una versione romana e italiana della riflessione moscovita e russa di Puškin: «Conosco il mio potere: quello che ho, mi basta».