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 2021  settembre 11 Sabato calendario

Biografia di Umberto Curi raccontata da lui stesso

Ancora oggi è opinione diffusa che la filosofia serva a risolvere i problemi. Sempre più il filosofo somiglia al curatore di anime – equiparato al counseling– a un pacificatore che dispensa consigli e trova soluzioni. È un’immagine del sapere filosofico che Umberto Curi mette in discussione. Mi colpì anni fa l’uscita di un suo testo in cui sosteneva che la filosofia fosse per lo più un’attività bellica, una guerra, più o meno sotterranea, che lascia morti e feriti sul campo. Curi, che proviene da studi classici definì allora la filosofia polemos, guerra appunto. Immagino Curi come un uomo guardingo, provvisto di una certa ferocia concettuale, pronto a cannoneggiare le postazioni nemiche, mentre in realtà è esattamente il contrario: affabile e conciliante. Ha appena compiuto 80 anni e per questo gioca un po’ meno a tennis, passione che lo ha divorato forse più della filosofia. Ha scritto recentemente un libro dedicato al sogno: un viaggio nell’occidente onirico da Omero a Freud.
È meglio sognare la guerra o farla?
«Se ti riferisci, come credo, alle “guerre filosofiche” è il sogno di ogni grande pensatore vincerle. E in questo atteggiamento c’è già la risposta: al sogno la filosofia ha preferito il combattimento».
A proposito di guerra: sei nato nel 1941, con l’Italia che entrava nel conflitto. Che ricordo hai di quel periodo?
«Durante la guerra mio padre fu nominato provveditore degli studi a Taranto. Quindi da Verona, dove insegnava, ci trasferimmo al sud. Poi nel periodo peggiore sfollammo a Castellaneta. Mi raccontava che copriva a piedi la distanza fino a Taranto. Era un uomo tenace, a lui devo in pratica tutto quello che ho fatto e che sono diventato».
Perché hai scelto di occuparti di filosofia?
«In realtà non ho mai scelto la filosofia in senso stretto o accademico. Tanto è vero che quando mi laureai a Milano nel 1964 scelsi come relatore un giovane psicologo, Paolo Bozzi, che proprio in quegli anni stava introducendo la psicologia della Gestalt. Con lui feci una tesi sul concetto di coscienza alle origini del comportamentismo. Bozzi aveva interessi epistemologici ed è la ragione per cui a un certo punto ho cominciato a occuparmi di alcuni fisici teorici».
Chi?
«Uno fu il premio Nobel Percy W. Bridgman.
Naturalmente non ero interessato alla sua teoria sulla solidificazione dei liquidi, ma a un problema che Bridgman pose in maniera chiara: lo shock che la fisica quantistica aveva provocato in molti ricercatori che si smarrirono davanti alla rivoluzione dei quanti. E provò a riflettere sul concetto di shock epistemologico, su come in certi casi la mente umana faccia fatica ad adeguarsi ai nuovi concetti scientifici».
A proposito di quantistica, ti sei anche occupato di Erwin Schrödinger. Che cosa c’entravi con quel mondo?
«Non sono mai stato un filosofo della scienza. Ma negli anni in cui ho diretto la fondazione Istituto Gramsci Veneto capitava spesso di mettere a confronto questioni scientifiche e filosofiche. Schrödinger mi incuriosiva per le conclusioni paradossali del suo discorso. Poi c’è stato l’interesse per la tragedia classica, senza distinzioni disciplinari. Forse il frutto migliore di quegli anni fu il mio lavoro sulle Endiadi».
Cosa vuol dire “Endiadi”?
«Sta ad indicare la duplicità intrinseca della condizione umana. Edipo, che è insieme sposo e figlio della stessa donna, è una chiara figura della duplicità. Il libro uscì in una prima edizione nel 1995. Nonostante le inevitabili imperfezioni è l’opera in cui mi riconosco, perché mi ha permesso di irradiare la ricerca verso direzioni molto interessanti».
Quando dici interessante alludi al tuo lavoro sulla filosofia come “polemos”?
«È stato uno degli approdi; in fondo la “duplicità” riflette il tratto meno risolvibile della natura umana, anche il più ambiguo e conflittuale. Per quanto ci si sforzi, il ragionamento filosofico – contrariamente a quello che pensava lo storicismo – non potrà mai essere conciliante fino in fondo, resterà sempre qualcosa di irrisolto, su cui discutere e scontrarsi».
In che cosa consiste il tratto bellico della filosofia?
«Sgombrerei il campo da un possibile equivoco. Non si tratta di due filosofi che litigano, anche se abbiamo avuto scontri epocali, qui in gioco sono le contraddizioni sia logiche che ontologiche che non sono ricomponibili e richiamano la potenza del negativo».
Dillo se ti è possibile in modo più semplice.
«Si tratta del “pensiero negativo” che Massimo Cacciari – di cui sono amico da più di mezzo secolo – ha introdotto negli anni Settanta. “Negativo” nel senso che il pensiero resta sempre aperto, la contraddizione non è dialetticamente ricomponibile né superabile come invece auspicava Hegel. Si tratta di un processo reale più che logico. Di qui il ricorso anche alla politica».
E la politica è stata una delle componenti della tua vita.
«Una delle tante battaglie perse. Forse anche per un mio limite».
Nel senso?
«Non sono mai riuscito a identificarmi con un’ideologia politica. Il che non vuol dire che abbia rinunciato a scegliere. Mi sono sempre collocato a sinistra con un rapporto di militanza attiva; dal 1977 al 2005 sono stato alla direzione dell’Istituto Gramsci Veneto e ho sperato che attraverso il lavoro intellettuale svolto in prima persona la politica assumesse ben altro respiro. Ma ho dovuto ricredermi. Ero un illuso».
È stato un tuo limite o della politica?
«È una responsabilità condivisa, certo. Ma ho sperimentato la sordità del ceto politico di sinistra rispetto all’innovazione teorica. Mi sarei aspettato dalle forze progressiste una maggiore attenzione al nuovo e invece ho verificato un atteggiamento conservatore».
Sei ancora di sinistra?
«Lo sono genericamente. Anche perché a destra c’è solo deserto. Ma poi mi chiedo, ha ancora senso il rapporto intellettuale e politica?».
Che risposta ti sei dato?
«Ho l’impressione che oggi la politica si rivolga ad altre figure di “influencer”, così si chiamano i nuovi eroi della comunicazione. Oggi sarebbe considerata ridicola la polemica tra Togliatti e Vittorini e perfino un libro importante come Politica e cultura di Norberto Bobbio passerebbe inosservato nel cosiddetto dibattito delle idee».
Forse non ci sono più idee.
«Non lo penso. Forse i talenti sono emigrati altrove. Non stanno nei partiti e neppure nelle università. Quello che registro è solo la fine di un grande sogno».
A proposito di sogni, è in libreria il tuo nuovo libro, “Fedeli al sogno”, dove delinei nella storia dell’Occidente due grandi linee interpretative.
«Una è quella che da Omero arriva fino a Freud, secondo la quale il sogno rivela il futuro a condizione che esso sia sottoposto a interpretazione. Cioè, il sogno non parla per sé, ma solo attraverso un altro linguaggio. E poi, c’è l’altra linea – molto novecentesca, che va da Benjamin ad Adorno e giunge fino a Derrida – per cui il sogno va rispettato nella sua originaria integrità e sottratto all’interpretazione».
Tu per quale protendi?
«Cerco di restare fuori sia dalla contrapposizione sogno-realtà, sia dalla convinzione che la realtà altro non sarebbe che sogno».
Mentre è abbastanza chiara la posizione di Freud, lo è meno quella di Benjamin, Adorno, Derrida.
«La loro è una reazione all’idea che del sogno si possa parlare solo a condizione che venga tradotto nella logica razionale. Vogliono salvaguardare il sogno e la sua peculiare identità».
È una posizione interessante che in origine ha il fenomeno dello sciamanesimo, per cui i sogni non si interpretano ma, in un certo senso, si abitano.
«Il che rende impossibile una netta distinzione fra i due ordini di realtà. Per anni Adorno annotava al risveglio il contenuto dei suoi sogni notturni. Teneva accanto al letto un taccuino in modo da poter trascrivere immediatamente quello che aveva sognato. Come se fosse ancora sulla soglia: dentro e fuori dal sogno».
Una volta trascritti, cosa diventavano i sogni?
«Intanto l’immediatezza della trascrizione gli consentiva di evitare l’interferenza interpretativa. Che era un po’ lo stesso atteggiamento di Fellini quando trascriveva il sogno appena fatto e lo accompagnava con dei disegni».
Ma anche trascrivere è in qualche modo avviare un’interpretazione.
«È vero. Ma con una differenza fondamentale. Per Adorno il sogno non annuncia il futuro bensì testimonia la presenza del passato: qualcosa che è già accaduto. Fu Benjamin per primo ad insistere sull’affinità tra ricordo e risveglio e a sostenere con forza l’identità tra il passato e il sogno».
Tutto questo che effetti produce sulla filosofia?
«La filosofia, diciamo da Platone a Husserl, ha fatto coincidere l’attività del pensiero con il risveglio, quindi con la coscienza vigile, escludendo che ci possa essere un’attività filosofica fuori dall’imperativo razionale. Al contempo c’è una tendenza minoritaria che ha posto il pensiero in una posizione meno perentoria; quindi più libera e aperta ad altre figure quali il poeta, lo scrittore, il musicista, il teatrante, il cineasta. Si tratta del tentativo o meglio della possibilità di unire il lato mistico e creativo della vita con quello illuministico».
Una specie di ossimoro.
«Qualcosa che Derrida ha chiamato “il paradosso della possibilità dell’impossibile”, ossia una posizione che egli attribuì a Benjamin e che nasceva da una domanda precisa».
Quale?
«È possibile parlare del sogno con un linguaggio che non sia sottomesso al dominio della veglia? Una risposta affermativa coinvolge il tema dell’alterità, cioè l’estraneità dell’esperienza onirica ai criteri usuali dell’indagine filosofica».
Insomma, fare filosofia stando fuori dal suo canone?
«Più o meno è così».
È la ragione per cui da anni rivolgi la tua attenzione al cinema?
«Citavo Fellini, ma potrei farti altri nomi, tra cui Kubrick che proprio nell’ultimo Eyes Wide Shut – tratto da Doppio sogno di Schnitzler – si muove su una terra di nessuno dove è impossibile decidere se quello spazio appartenga al sogno o alla realtà. Quello che Kubrick sostiene, ma avrebbe potuto ritrovarlo in Benjamin, è il carattere ambivalente dell’esperienza che si sta vivendo. Da questo punto di vista, una filosofia che si ponesse il problema di uscire da questa ambiguità sarebbe destinata a fallire».
Questa “terra di nessuno” somiglia molto alla descrizione che Kafka fa del teatro di Oklahoma in “America”. Che è anche una delle migliori descrizioni di cosa sia uno spazio cinematografico.
«Proprio questo riferimento a Kafka ossessionò Adorno.
Quella descrizione sembra porsi sul confine tra sogno e veglia. Mi fai venire in mente che quando Kafka pubblicò La metamorfosi non volle che ad illustrarla fosse l’immagine di un insettone, ma di una donna dall’espressione inorridita che sbircia sulla soglia di una porta socchiusa. Come se fosse contemporaneamente nel mondo reale e in quello onirico».
Il tuo modo di accostarti al cinema è molto diverso da quello adottato da Gilles Deleuze.
«A me interessano i film come narrazione. André Bazin diceva che un film alla fine non è altro che un racconto.
Deleuze ha avuto il merito di tirare fuori il cinema dall’intrattenimento, mostrando la ricchezza concettuale delle opere cinematografiche e delle categorie necessarie per interpretarle. Lui si è interessato al cinema e io ai film».
Sogni?
«Se io sogno? Faccio i sogni più diversi ma li dimentico.
Non ho la pazienza di annotarli. I miei sogni sono come nuvole di un cielo che minaccia pioggia. Ma non piove mai. Forse per questo ho deciso di occuparmene.
Benjamin raccontò di essere preoccupato che Adorno si installasse nella sua testa fin dentro i sogni più nascosti.
Forse Benjamin pensava che al cospetto dei suoi sogni, l’altro volesse carpirgli il segreto della verità».