Robinson, 11 settembre 2021
Riscoprire Giorgio Manganelli
La cosa più stupefacente è che dall’anno della morte di Giorgio Manganelli, 1990, ci separano poco più di trent’anni. Un grande enigma umano e letterario, come è stato e resta “il Manga”, lo si può affrontare soltanto se lo spazio con l’attualità sia una distanza siderale, omerica, quasi aliena. Altrimenti diventa obbligatorio interrogarsi su cosa mai sia accaduto, in questi decenni, al culto biblico della parola, all’ironia non priva della sghignazzata, al poderoso sapere enciclopedico, ai viaggi concepiti come avventure interiori, tutte caratteristiche palesi dell’autore.
Di Manganelli si è detto che fosse un «gelido alchimista», un moderno «benandante» ( come quelli narrati da Carlo Ginzburg e da lui recensiti), un «uomo geniale» ma «perseguitato da un demone sordido», come egli stesso definì il «maledetto» Frederick Rolfe, detto Baron Corvo, autore della prima biografia novecentesca che osò rivalutare i Borgia.
Salvo che poi, a furia di etichette, lo scandalo del “Manga” viene di solito messo tra parentesi. Troppo irregolare. Meglio prendere con le molle centinaia di recensioni incendiarie, un pugno di libri intrisi di fantastico, i reportage esotici, le pagine inedite dissepolte. Tutto materiale di inesplicabile catalogazione. Così come è meglio sottacere le sue proverbiali e pubbliche tenzoni, con Primo Levi piuttosto che con Moravia, per sostenere la sua provocatoria convinzione: la letteratura è una menzogna.
Scrittore, traduttore, critico, giornalista, docente, collaboratore Rai, curatore editoriale, lettore voracissimo, una vita passata tra Mondadori, Einaudi, Adelphi, Garzanti, Feltrinelli, Bompiani, Manganelli nasce nel 1922 a Milano e si laurea in scienze politiche a Pavia, partecipa al controspionaggio della Resistenza senza mai farsene un vanto, esordisce infine nella letteratura a quarantadue anni con il folgorante Hilarotragoedia. Esempio di “stile tardo”, l’autore definì la sua opera prima «un’opericciuola», una «pratica e maneggevole classificazione delle angosce». Il pregio, aggiunse, «è da ricercare nella minuziosa, accanita fedeltà al vero». Venne subito intruppato tra gli scrittori detti “neo- avanguardisti”. Non se ne dolse affatto.
Nel 1967 sbarca in libreria La letteratura come menzogna e qui, tra i saggi dedicati a Stevenson, Dickens, Peacock e Dumas, Manganelli annida uno scritto salmodiante come una orazione: la letteratura è immorale, cinica, corrotta, inesauribilmente scandalosa, votata alla diserzione, asociale, anarchica, utopista. Nel risvolto di copertina alla riedizione del libro per Adelphi ( Roberto Calasso ne ha ristampato altri ventisei volumi, a cura di Salvatore Silvano Nigro) si annota: «È accaduto che l’essenza menzognera della letteratura sia serpeggiata per anni in tante opere, sinché Manganelli decise, con gesto brusco e quasi burocratico, di presentarla allo stato civile».
Nel giugno dello stesso anno, in una recensione su Il Giorno, alza il tiro: «Resta da chiedersi perché scrittori di fantasia in qualche modo inconsueta si impegnino a scrivere libri di svelta e fortunata lettura, quando, con qualche fatica aggiuntiva, potrebbero scriverne di illeggibili». Alberto Moravia se la prese e, su Nuovi Argomenti, replicò che a essere “illeggibili” erano piuttosto i testi d’avanguardia. Manganelli rispose ne La letteratura come mafia:immaginando un veglione hollywoodiano in cui i neo- avanguardisti festeggiavano tirature planetarie, aggiunse: «E intanto i leggibili e validi languono, appartati nelle loro soffitte, con mano scarna e tremula vergano le loro storie educative, ed ogni inverno muoiono come le mosche e, non fosse la “pietas” dei parrocchiani, li seppellirebbero nelle fosse comuni». Mai pago, dieci anni dopo, in risposta a un articolo di Primo Levi su La Stampa, sempre a proposito dello “scrivere oscuro”, ne vergò sul Corriere della Sera addirittura un “elogio”.
Nel frattempo, scandalizzava l’inedito ruolo di “recensore-scrittore” che si era ritagliato. Silvano Nigro ne ha messo in luce un esempio di scuola. Presentando nel 1979 su L’Espresso un libro del paesaggista Ippolito Pizzetti, Manganelli diceva: «Erbe, fiori, piante non sono realistici. Sono la prova indubitabile che la natura, come ovvio, è estremamente innaturale… si può leggere il libro come un documento sull’irrealtà del reale… la fede di Pizzetti nei fiori non è suffragata dalla loro esistenza ma al contrario essa agisce “sebbene” i fiori esistano. I fiori sono impossibili e tuttavia ci sono; l’importante è non perdere di vista il fatto che sono impossibili, e non farsi sviare dal fatto, del tutto storicizzabile, che ci sono… Pizzetti crede nei fiori come potrebbe credere nelle fate».
È il lato bizzarro fino all’esoterico di un insospettabile erudito, che influenzerà – lui, pigrissimo – anche la stagione dei viaggi. Manganelli supporrà che a spingervelo sarebbe stato, tanti anni prima, e “misteriosamente”, l’amico Giuseppe Tucci, l’esploratore italiano del Tibet, tramite il suo analista junghiano, Ernst Bernhard, che proprio Tucci aveva salvato dai lager nazisti. Lo scrittore visiterà l’Oriente come un itinerario iniziatico. I frutti faranno capolino anche ne La palude definitiva, romanzo ritrovato dopo la morte. Il libro si conclude con una citazione della “ecpirosi”, la dottrina della “conflagrazione universale” dei filosofi stoici. Un altro enigma gettato lì, quasi per caso.