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 2021  settembre 11 Sabato calendario

Su "La vita sociale delle cose" di Arjun Appadurai

L’oro e l’argento, i due metalli più perfetti e rari, sono l’immagine dello splendore solare e del chiarore lunare. Ma a spiegarne il valore non è la loro perfezione quasi soprannaturale, né altre proprietà fisiche o metafisiche. Di fatto sono gli uomini che hanno stabilito di farne la misura e lo strumento della ricchezza. Lo dice l’economista cinquecentesco Bernardo Davanzati nella sua celebre Lezione delle monete. Affrontando, da antropologo ante litteram, la questione dei fondamenti sociali del valore. Ma anche di quelli simbolici, che dai primi sono inseparabili. In altre parole, gli oggetti che valgono non sono semplici oggetti ma, per dirla con Leopardi, «cose che non son cose».
Materia e rappresentazione. Come dire che il valore non è altro che un giudizio dei soggetti sugli oggetti. Ma questo giudizio, proprio in quanto collettivo e sociale è al centro di un equilibrio instabile tra desiderio e godimento, che prende forme e parametri variabili a seconda dei diversi contesti storici e culturali. È questa la tesi che attraversa La vita sociale delle cose, appena tradotto da Meltemi, curato da Arjun Appadurai.L’autore, che insegna Media, Culture and Communication alla New York University, ha chiamato un nutrito manipolo di specialisti, antropologi, economisti, storici, a fornire il loro punto di vista sul significato che gli uomini attribuiscono agli oggetti. Sulle transazioni e motivazioni, sull’uso dei beni, sulla loro circolazione. Insomma, sull’origine dell’homo oeconomicus. A partire dallo scambio, che rappresenta il grado zero del valore, il punto di intersezione tra il piano della domanda e quello dell’offerta.
Ad accomunare Appadurai agli altri è la convinzione, in verità già marxiana, che le cose e le relazioni sociali si influenzino a vicenda. Nel senso che il bene non ha valore assoluto ma è sempre lo scambio a determinare i parametri di utilità, di rarità, di preziosità, di desiderabilità. E se nella nostra cultura il denaro è l’equivalente generale di ogni valore, ci sono mondi dove gli oggetti circolano entro regimi di valore diversi, dai quali non possono uscire. Come nelle isole Trobriand, in Melanesia, rese celebri dagli studi dell’antropologo Bronislaw Malinowski, o in altre località della Nuova Guinea dove l’intera vita sociale gira intorno allo scambio di dischi di conchiglia. Apparentemente privi di valore economico, ma preziosi per i nativi in quanto il loro passaggio da un donatore all’altro veicola tutte le altre relazioni sociali. A lungo si è pensato che si trattasse di una moneta primitiva, ma in realtà questi gusci di molluschi non servono a comprare beni di altra natura, in quanto possono essere scambiati solo con altri oggetti della stessa specie. Apparentemente siamo lontani anni luce dalla nostra idea della merce acquistabile col denaro. Invece non è così, perché anche questo singolare circuito di doni obbedisce a una logica speculativa non dissimile da quella del mercato.
Il libro revoca decisamente in questione l’opposizione tra società del dono, dove le relazioni hanno fondamento simbolico e gratuito, e società del calcolo dove l’interesse regna sovrano. Secondo gli autori, dunque, l’idea di merce non è una prerogativa esclusiva del capitalismo. Perché in realtà lo scambio gratuito e quello oneroso coesistono in tutte le società umane. Ma se la merce è dovunque, non tutto può esserlo. Ci sono cose che nascono come merci, ma poi vengono deviate dal circuito economico e smettono di esserlo. Basti pensare alle reliquie sacre il cui valore è più simbolico che economico. Anche se indirettamente fanno economia. Come nelle aste di opere d’arte il cui vero scopo, sostiene Appadurai, è di creare una comunità di privilegiati impegnati in una tenzone speculativa per il possesso di un numero limitato di beni ad altissimo statuto simbolico. Sono altrettante forme di demercificazione degli oggetti che si trovano nel mondo capitalistico come in società lontane nel tempo e nello spazio.