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 2021  settembre 11 Sabato calendario

I neri italiani dimenticati dalla Storia

Li chiamavano “mulattini”, ma anche “negretti”, “cioccolatini”, “moretti” o “creature del sole e della luna”, per alludere all’incrocio tra colori diversi. Ibrown babies erano figli della guerra, ma diversi da tutti gli altri perché di pelle scura, nati dall’incontro tra giovani donne italiane e soldati neri dell’esercito di liberazione americano. Tremila bambini forse – la cifra resta incerta – in larga parte abbandonati dal padre e nascosti vergognosamente dalla madre, ma espulsi anche dal corpo bianco della nazione, dalla storiografia che li ha fin qui ignorati, dal ceto intellettuale che ne ha tratto ispirazione per tammurriate e racconti esotici senza mai interrogarsi sul significato profondo della loro emarginazione. Le storie di questi bambini, gli esperimenti sociali e le misurazioni antropometriche cui furono sottoposti dai genetisti della scienza democratica, ci fanno conoscere un Paese rimasto fin troppo a lungo nell’ombra, un’Italia postbellica convintamente razzista che però non sa di esserlo, capace di esprimere l’articolo 3 della Costituzione – l’eguaglianza senza distinzione di “razza” – ma ancora intrisa dei pregiudizi contro i neri ereditati dal regime di Mussolini.
A rompere un velo di reticenza su una realtà sgradevole è Silvana Patriarca, autrice di un libro difficile che per la prima volta indaga in modo sistematico il razzismo nell’Italia postfascista. Il colore della Repubblica racconta molto anche del nostro presente, del Paese che insulta Ballotelli allo stadio, combatte lo ius soli in nome dello ius sanguinis, e spinge il piccolo Omar, un bambino marocchino di 9 anni, a scrivere sul quaderno: «Io ho la pelle marroncina, non nera, perché sono arabo. Ma se era nera, mi andava anche peggio». Quella dei brown babies, dei tantissimi piccoli sommersi di cui esiste traccia solo nei vecchi archivi, è la storia di bambini indesiderati, “criaturi niri niri” che stridono con il biancore degli italiani, “figli di un’altra razza” naturalmente destinati – secondo l’opinione più benevola – a far ritorno nei climi torridi del Terzo Mondo, tra simili dalle «labbra tumide», «l’ampio sorriso a tutti denti» e quei segni di «primitività selvaggia», di cui continuano a parlare le cronache italiane per svariati decenni dopo la fine della guerra. Prima gli italiani, allora come oggi.
È una storia che comincia dalle donne, dalla loro libera scelta, finora azzerata da un immaginario che le ritrae mercenarie del sesso, segnorinespregiudicate o vittime di violenza, il più delle volte meritevoli di censura sociale per la lascivia condivisa con lo straniero nero.
La pelle di Malaparte ne fu il compendio più espressivo, capace di forgiare permanentemente la coscienza italiana. Alcune ragazze furono punite pubblicamente, rasate, anche stuprate. Patriarca dà voce anche alle donne che, indipendentemente da necessità economiche, scelsero di unirsi ai soldatiafroamericani, trovando affinità sentimentali e proiettando in quelle relazioni i propri sogni di emancipazione. Il destino non riservò loro una vita facile. Dovettero sfidare ostracismi, maldicenza, uno stigma quotidiano. Talvolta un lungo viaggio verso un Paese che le rifiutava. E non è un caso che solo dieci anni fa Silvana Galli – una di queste ragazze coraggiose – abbia deciso di rompere il lungo silenzio sui figli della colpa. «Di me hanno detto tutto, che ero una pazza a voler tenere un bambino di colore, che ero un’incosciente a volerlo lasciare al mondo». Di una cosa però si diceva certa. Lei non era “una ragazza del Tombolo”, una di facili costumi che frequentava “la pineta della perdizione” tra Pisa e Livorno: la Toscana, insieme alla Campania, fu la regione dove più a lungo restò il contingente americano ( che si fermò anche in Puglia, Lazio e Sicilia).
Quei bambini neri costituirono un problema per tutta la società italiana. Anche la firma prestigiosa di Paolo Monelli accreditava nel 1947 la diffusa «repugnanza per le unioni miste», che non esitava a definire «contro natura». E un film come Il mulatto di Francesco De Robertis trovava il suo happy endnel ritorno in Africa del piccolo protagonista, grazie al provvidenziale arrivo in Italia dello zio nero, mai visto prima ma con cui il bambino Angelo avvertì fulmineamente un’istintiva affinità razziale.
I neri erano un corpo estraneo alla nazione bianca. E l’idea di espellerli non apparteneva solo al cinema. Intorno a questo principio ruotarono per circa un decennio le iniziative benefiche di cattolici e laici. Raffigurati come “asociali”, “primitivi”, “facili all’ira”, i brown babies raccolti nei brefotrofi procuravano disagio a sé stessi e ai bimbetti bianchi: la soluzione proposta dai benefattori fu di spedirli nei paesi dove il colore della loro pelle non sarebbe stato un problema. Ci provò don Carlo Gnocchi, il prete buono dei mutilatini, alla metà degli anni Cinquanta: l’obiettivo dichiarato era quello di «sottrarre i moretti a una vita nomade o alla malavita» alla quale erano condannati. Approvato dal Vaticano, anche contrastato da alcuni sacerdoti che non condividevano l’espatrio, il progetto di mandare i bambini neri in Brasile ebbe un esito incerto. In una lettera inviata a papa Pio XII nel 1954, don Gnocchi annuncia il trasferimento come imminente. Ma dopo la sua morte, nel 1956, la documentazione s’interrompe.
Di certo sappiamo che alcuni di loro, nel 1955, furono sottoposti alle sperimentazioni antropometriche di Luigi Gedda, il genetista che nel 1938 aveva firmato il Manifesto in difesa della razza. Pur respingendo nell’introduzione qualsiasi sospetto di pregiudizio razziale, il presidente dell’Azione Cattolica produsse un’indagine sugli “ibridi di guerra” che mostra il permanere nella scienza medica dell’idea della razza pura. Dal colore dei capelli allo spessore delle labbra, dalla lunghezza delle mani alla forma del cranio, i tratti fisici ricorrenti rafforzarono nell’équipe del professor Gedda l’idea della negritudine come una condizione umana differente dalla norma. Il volume fu incensato dagli ambienti accademici italiani, mentre le facce dei quarantaquattro bambini ridotti a “materiale ibrido” ancora raccontano disagio e sperdimento.
Non tutto il Paese si rifletteva nell’impostazione di Gedda, che naturalmente difendeva anche il principio della segregazione. La ricerca di Patriarca fa luce anche su psicologi e assistenti sociali che si adoperarono per soddisfare i bisogni di quei bambini. Sono i loro quaderni a descrivere ferite non rimarginabili, «colpi dolorosi che lasciano segni invisibili nel corpo e nella dignità». Raccontano di scolari che si tingono la faccia di borotalco o mandano giù litri di latte nella speranza di diventare più bianchi. Un ragazzino arriva a passarsi la cartavetrata sulla mano, come per raschiare via il colore della colpa.
I più fortunati crebbero con madri affettuose, alcuni furono adottati, ma il tasso di adozione del nostro Paese fu tra i più bassi in Europa. Secondo Jean Charnley, un’assistente sociale americana che operò nel nostro Paese negli anni Cinquanta, gli italiani erano trattenuti dal timore che quei bambini potessero rivelarsi “figli di qualcun altro”, ereditandone precise caratteristiche psicofisiche. Da noi era mancato un dibattito pubblico sul razzismo della società italiana, anche per la rapidità con cui l’Italia aveva perso i territori africani tra il 1941 e il 1943. Protetti dalla mitografia del bravo italiano, nel lungo dopoguerra non abbiamo mai fatto i conti – come è accaduto in altri paesi – con i pregiudizi razziali propri d’un popolo colonizzatore. Anche negli anni Sessanta, quando dagli Stati Uniti arrivavano le fiammate dei movimenti di liberazione dei neri, pensavamo che la cosa non ci riguardasse. I film progressisti come Il Nero di Giovanni Vento, che per la prima volta metteva in scena una coppia interrazziale, venne letto a sinistra come critica del sistema capitalistico, non come denuncia d’una società ancorata a preconcetti di razza. Il razzismo in Italia non era un problema: così ce la raccontavamo.
Quei bambini hanno oggi più di settant’anni. Qualcuno è andato in cerca del padre americano e l’ha trovato. I più realizzati, come il sassofonista jazz James Senese, sono riusciti a raccontare le loro storie anche perché sono storie di successo. Antonio Campobasso ne ha tratto ispirazione per il lavoro teatrale d’una vita. Patriarca ha dato voce a tutti, anche a quelli che non possono parlare. Rivivere le loro angosce può favorire un’autocoscienza collettiva, preziosa nell’Italia multietnica del XXI secolo.