Robinson, 11 settembre 2021
Gli inutili buoni propositi di settembre
Quando torniamo dalle vacanze, non si sa perché, vogliamo essere migliori. E passiamo gran parte dell’estate a pensare che dobbiamo essere migliori, e la maggior parte del tempo del ritorno nella nostra vita a fare buoni propositi. Ogni anno, a settembre, ci diciamo che questo è l’anno in cui saremo risolutivi, in cui dimostreremo a tutti che persone eccezionali possiamo diventare. In ogni campo: alimentazione, forma fisica, senso civile, generosità, senso dell’iniziativa, dimostrazioni d’amore, solidarietà verso le persone più sfortunate, costanza, determinazione – soprattutto ci ripetiamo le parole “costanza” e “determinazione”, perché sono quelle che condizioneranno tutto il resto delle iniziative che prenderemo.
Negli ultimi due anni, in coincidenza con la pandemia, le ambizioni si sono ridotte di molto: i buoni propositi sono diventati a gittata corta, non sono più eccessivi o complicati; ci accontentiamo di sopravvivere al periodo con modesti miglioramenti. Ma non rinunciamo alla lista delle cose da fare e da migliorare pur dentro i limiti che il mondo esterno ci concede.
Per quanto mi riguarda, da anni, ho un file intitolato “buoni propositi” nel computer – altri li tengono a mente, o li improvvisano anno per anno. Io no, ci credo, sento che se li fermo su carta staranno sempre lì a minacciarmi. Ogni fine estate, lo apro. Mi accorgo di aver cancellato, durante l’anno, pochissime voci, a volte nessuna. E di continuare ad aggiungere una enorme quantità di nuovi buoni propositi. Sono molto determinato, ogni anno, a confrontare il me stesso reale, quello che ha vissuto con enorme fatica per esempio quest’altro anno di pandemia, e il me stesso che potrei essere se riuscissi davvero a concretizzare la maggior parte – non dico tutti – dei buoni propositi per il nuovo anno. Tra questi, essendocene di importanti e di trascurabili, forse il più trascurabile è l’ammonimento a non dire mai più che per me l’anno nuovo non comincia a gennaio ma a settembre. Mi sento totalmente scemo quando lo dico, eppure non posso farne a meno. Negli ultimi anni ho creduto di aggirare l’ostacolo usando forme metaforiche o essendo allusivo e non letterale, ma poi mi rendo conto che se sono onesto non posso cancellare dalla lista, come “fatto!”, nemmeno questo minuscolo proposito.
Ma il problema vero dei buoni propositi è che rimangono tali soltanto se non si realizzano. E infatti psicologicamente la lista è risolutiva. Se provate a fare una lista di quello che volete assolutamente fare da lunedì, scoprirete pian piano che la lista è soddisfacente in sé; e che pian piano sostituisce la realtà. E cresce in voi la perversa volontà di disattenderli. E in tal modo essi sono lì, non possono essere cancellati, e vi faranno compagnia ancora per tutto l’anno.
Perché il buon proposito, alla fine, ha valore quando viene pronunciato, più che realizzato: questa è la sua caratteristica paradossale. Queste liste sono molto soddisfacenti perché danno il quadro completo delle soluzioni della vita, e tutto quello che bisognerebbe fare durante l’anno per essere una persona migliore. Ma sono talmente soddisfacenti che si consumano in sé.
Per esempio, la frase: devo assolutamente telefonare a mio zio, e non telefonando poi, pian piano si trasforma e assume in sé la forma assoluta. E quindi pronunciarla equivale alla telefonata, sostituisce la telefonata. Altro esempio: a casa mia si compra in modo nevrotico una eccessiva quantità di latte con scadenza ravvicinatissima. Ma c’è sempre qualcuno che dice: non preoccuparti, faccio un dolce. Nessun dolce è stato mai fatto, ma quella frase nel tempo ci ha rassicurati, e adesso quando viene pronunciata è come se il latte in eccesso sparisse. Appunto, come quando mangiando una carbonara strapiena di calorie, addentandola qualcuno dice: domani però mangio solo frutta – e a quel punto, come d’incanto, la carbonara smette di essere un problema, diventa leggerissima, il senso di colpa svanisce.
Ma per questo sistema psicologico esiste nel mondo l’esempio degli esempi. Un esempio gigantesco e grandioso rispetto alle nostre vite quotidiane e ai nostri propositi miseri. Che non riguarda più i singoli individui ma l’umanità intera. Ed è quello del Papa nell’Angelus domenicale, quando si affaccia alla finestra di San Pietro. Non sto parlando solo di papa Francesco, ma anche dei molti papi precedenti. Di tutti i papi da quando c’è questa usanza trasmessa dai telegiornali. Ecco, il Papa alla finestra di San Pietro fa quello che facciamo noi quando stiliamo l’elenco dei buoni propositi, però lo fa in maniera generosa, non per sé stesso ma per l’umanità, e dice che auspica una pace tra gli israeliani e i palestinesi, chiede che finisca la guerra in quel paese, auspica che gli atti terroristici cessino. È vicino alla gente che soffre e auspica che il mondo sia migliore. Tutte queste parole belle e condivisibili le dicono i papi tutte le domeniche da decenni e decenni; il mondo continua ad andare come va, e niente di quello che il Papa auspica sortisce un effetto. Ma questo non impedisce al Papa di continuare a dirlo, e al mondo di continuare a ignorarlo.
Tutte le cose che auspicano i papi dalla finestra sono molto belle. Ma non bastano. Anzi, non servono a niente se non ci sono conseguenze per quelle parole. E invece ormai la routine è consolidata: il Papa fa l’elenco delle cose che dovrebbero migliorare il mondo, la domenica mattina, e il mondo se ne fotte. E in realtà, anche il Papa, oltre quelle parole nella sostanza concreta dei fatti non va. È diventata una trappola: ormai come si fa a smettere di enunciare i buoni propositi, ma del resto nessuno si aspetta più ci siano conseguenze concrete a quegli appelli e auspici. Quel Papa, affacciato alla finestra, che dice il mondo dovrebbe essere migliore è la sintesi grandiosa e perfetta di noialtri e delle nostre singole vite che vogliamo essere migliori e non ci riusciamo. Lo disattendiamo. Ma lo abbiamo detto: i buoni propositi in fondo valgono in sé. Non bisogna metterli in atto. Bisogna enunciarli, esprimerli, scriverli. Bisogna farne degli elenchi. E quegli elenchi sono così belli, così virtuosi, che sarebbe un peccato cancellarli.
E questo insegnamento vale per tutto. Ci piace molto dire in questo momento che vogliamo mangiare cibi sani e vogliamo andare in palestra e vogliamo occuparci di più degli altri. Ma tutto ciò costa; costa tempo, costanza e concentrazione. Bisogna comprare le verdure, lavarle, cucinarle; bisogna iscriversi alla palestra, andarci ogni volta qualsiasi cosa succeda, lavare i panni sporchi di sudore. Bisogna dare il proprio tempo a organizzazioni volenterose e scoprire che è faticoso, triste, difficile. In più, durante la pandemia, le difficoltà sono triplicate e la ricerca di una vita più facile viene istintiva. E tempo, costanza e concentrazione si ha meno voglia di spenderli. Si tende a sopravvivere. E di conseguenza si rafforza la nostra domenica dell’Angelus con noi stessi, quella della fine dell’estate, quando declamiamo l’elenco dei buoni propositi per essere delle persone migliori nella vita, e poi chiudiamo la finestra e continuiamo come prima, e se ne parla la prossima volta. Perché i buoni propositi della sopravvivenza durante la pandemia, essendo a gittata corta, sono più facili da ottenere, ma allo stesso tempo li si disattende con più leggerezza, meno senso di colpa. In fondo, una delle conseguenze positive della condizione di vita durante la pandemia è che abbiamo abbassato di molto il nostro livello di senso di colpa. Prima, se ci abbandonavamo su un divano per ore con gli occhi persi nel vuoto ci tormentavamo, adesso ci giustifichiamo: stiamo aspettando che finisca l’emergenza.
Ecco, i buoni propositi di inizio anno (perché il vero inizio anno è a settembre, non a gennaio) saranno disattesi come al solito. Ma in più adesso possiamo giustificarci con la frase risolutiva per ogni intoppo della nostra vita: ma c’è la pandemia.