Sette, 10 settembre 2021
Biografia di Marcell Jacobs raccontata da lui stesso
Tu dov’eri il 1° agosto 2021, quando un italiano vinceva i cento metri all’Olimpiade? Forse un giorno questa domanda farà parte di un manuale di conversazione, ma intanto abbiamo cominciato col chiederlo a lui.
«Quella mattina mi sono svegliato alle 5 e 40, io e il fuso orario di Tokyo non siamo mai andati d’accordo. La gara era alla sera e le mie storiche parole al risveglio furono: «Mo’ che cavolo faccio tutto il giorno?». Telefono a Nicoletta, la mia mental coach. «Marcell, se sei già sveglio, rimani sveglio: accetta ciò che non puoi cambiare». La faceva facile, lei. Apro il computer per rilassarmi e vedo la prima pagina della Gazzetta. C’è una mia foto gigantesca: “L’uomo dei sogni”. Mi agito ancora di più. Passo la giornata chiuso in camera a cercare di non pensare alla gara, ma non riesco a pensare che alla gara. Voglio raggiungere la finale olimpica, dopo anni di batoste. Finalmente arrivo al campo di allenamento e mi rilasso, ma mentre ai blocchi provo la partenza, penso che la mia semifinale sarà quella con i più forti.
Richiamo Nicoletta, e lei: «Ma lo sapevi già, no? Accetta ciò che non puoi cambiare!». Va bene, accettiamo. Vado in pista e rincorro il cinese che fa la corsa della vita, e a me non piace rincorrere gli altri. Taglio il traguardo, Tamberi dalla pedana del salto mi viene incontro: «Ma che tempo hai fatto? Record europeo!» «Non mi interessa, lasciami stare! Sono in finale o no?». Sono in finale e manca un’ora e quaranta. Torno al campo di riscaldamento, salendo quattro rampe di scale. Appena vedo Paolo Camossi, il mio allenatore, gli faccio: «Io sono morto, non corro più. Mi sento le gambe di pietra. Ho dato tutto, l’obiettivo è raggiunto, basta così».
Mi sdraio sulla pista, completamente cotto, con i crampi. E chiamo Nicoletta a Roma: «Io non ne ho più. Vedi tu se da lì puoi fare qualcosa». Cominciamo gli esercizi di respirazione. Al telefono, per venti minuti. Butto via le tossine, recupero la presenza in me stesso. Poi mi rialzo e penso: «Dai, ci siamo». Faccio due allunghi e Paolo mi arriva addosso: «Non dico nulla, ma se parti così, stasera rischiamo il colpaccio…». Che cavolo ti salta in testa, Paolo? Raggiungo gli avversari nell’antistadio. I centometristi prima della gara si scrutano in cagnesco, tipo i boxeur, io invece do il cinque a tutti. Mi guardano come se fossi un coglione… I giudici controllano le scarpe, mi mettono il numero e io sono la persona più tranquilla del mondo, neanche dovessi uscire per andare a fare la spesa. Non ho nulla da perdere. Pressione zero. Arriviamo ai blocchi e ripeto a tutti: «Good luck! Good luck!». E loro: «Thank you», ma qualcuno si tocca.
Poi lo stadio diventa buio. Penso: «Bello, speriamo che ci facciano correre solo con il nostro rettilineo acceso». Me la godo come se fossi in spiaggia con un cocktail in mano. E appena sento l’urlo “Ai vostri posti!”, una voce dentro mi sussurra: «Io questa la vinco». L’inglese al mio fianco parte in anticipo, ma sono talmente concentrato sullo sparo che potrebbe scoppiare anche una bomba e io non mi muoverei. Mi scappa persino un risolino. Adesso la corsia accanto alla mia è vuota, ma tanto devo guardare solo davanti, mica di lato… Sì, buonanotte. Appena mi rialzo dopo la partenza, cerco gli avversari con la coda dell’occhio, ma ne vedo soltanto uno, Kerley, l’americano… Cazzo succede, e gli altri? Agli ottanta riesco ancora ad accelerare, sempre sciolto, senza strafare. So che, se sono in testa agli ottanta, nessuno al mondo attualmente può superarmi negli ultimi venti metri. Quando arrivo al traguardo, guardo a destra per essere sicuro che non sia un’allucinazione. Grido “Sììì”, ma penso di avere vinto un meeting, mica l’Olimpiade.
Mi arriva addosso Tamberi come un invasato, poi vedo gli italiani che esultano sugli spalti. E io: Grazie-grazie, ma pacato. Non mi rendo conto di che cosa ho combinato. Faccio le interviste, Malagò mi passa Draghi al telefono, mi cambio le scarpe, vado all’antidoping. Niente, continuo a pensare di avere vinto un meeting. Esco dallo stadio cinque ore dopo e riprendo finalmente in mano il mio telefono. Non leggo i messaggi e vado subito a guardare il numero dei follower. Prima della finale erano 114 mila. Adesso sono 630 mila! Salgo in camera a cambiarmi, mi metto a letto, però non riesco a dormire e in testa mi scorre la vita».
«A casa dei nonni c’era una rampa che portava in garage. I miei cuginetti avevano tutti la moto da cross. Io invece avevo solo le gambe e così le trasformai in una motoretta. Fingevo di accenderla, facendo il rumore con la bocca. Su e giù dalla rampa. “Marcell, non ti stanchi?” diceva mio nonno. E io: ma non vedi che sono in moto? Vrmm vrmm… A sette anni faccio la prima gara con i compagni di scuola, chi vince dà un bacetto alla più bella della classe. Vinco io e da allora non mi hanno fatto più correre con loro… Mi sono iscritto alla scuola calcio di Desenzano. Giocavo esterno destro, scarsissimo, l’allenatore diceva: butta la palla e corri. Il mio gol più bello, l’unico forse, lo ricordo ancora. Scendo sulla fascia, nessuno mi prende, arrivo in fondo e faccio il cross, ma per sbaglio la colpisco di esterno invece che di interno e il pallone si infila all’incrocio! Un giorno mi sono dimenticato di andare alla partita e lì ho capito che il calcio non mi interessava. Come la scuola.
Alle superiori mi hanno messo in una classe che raccoglieva i peggiori disadattati della città. Se non studi, non combinerai mai niente, dicevano i professori. E io: tanto farò l’atleta! Avevo le idee chiare, volevo diventare qualcuno. Non mi sentivo unico, ma diverso. All’asilo solo io avevo un nome straniero, la pelle scura e, soprattutto, un solo genitore. La maestra diceva: disegnate la vostra famiglia, e io disegnavo mia madre. Mai nessuno mi ha rinfacciato il colore della pelle. Anzi, alle bambine piacevo di più: tutto coloratino, dicevano, con quei capelli ricci. Già, una volta li avevo… Adesso li ho persi sul davanti e ancora non lo accetto. Nicole, la mia compagna, mi ha convinto a raparmi a zero, ma così di profilo sembro un alieno…».
«Un po’ alieno mi sentivo anche in pista. Ce l’avevo fatta, a 19 anni ero entrato nel gruppo sportivo della Polizia, e sarò loro sempre grato per questo. La mia specialità era il salto in lungo, come i miei primi miti, Andrew Howe e Carl Lewis, di cui avevo il poster della pubblicità Pirelli in camera: “Non esiste potenza senza controllo”. Con il passare degli anni, però, avevo troppo male alle ginocchia e allora mi sono concentrato sulla velocità. Arrivo a correre in 10.03 , ma un mese prima dei mondiali di Doha del 2019 mi si blocca una gamba. Il medico di Bolt risolve il problema, purtroppo in semifinale sbaglio la partenza e non recupero più. Altra delusione. Poi il lockdown.
Sono andato ad allenarmi a Desenzano da mamma, dove un amico di famiglia si era costruito un rettilineo di 90 metri nel giardino di casa, ma avevo sempre dei fastidi, arrivavo alle gare e mi si irrigidivano i muscoli. Marcello Magnani, il mio manager, mi suggerisce di andare da una mental coach. E io: «Perché? Non ho problemi!» Ci vado, ma per tutto il tempo rimango seduto sul divano a braccia incrociate. «A-ha, mmm», le mie risposte. Però Nicoletta mi piaceva, la sentivo familiare. Viene a vedermi al Golden Gala, poi mi chiama: «Quando corri è come se avessi una corda attaccata alle caviglie. Per scioglierla dovrai fare una cosa che non ti piacerà per niente. Riallacciare con tuo padre». «Sì, ciao, io non ce l’ho un padre». Ogni tanto mi mandava messaggi su Facebook, ma neanche gli rispondevo.
L’avevo visto una volta sola nel 2008, a Orlando. Non parlavo l’inglese e appena mi diceva qualcosa andavo da mia madre: «Mamma, cos’ha detto?”. Lui mi chiamava “Mamma boy”. Così dico a Nicoletta: «Non mi va di cercare mio padre solo per andare più forte in pista». Lei mi ha insultato, le capita spesso. «Smetti di pensare e agisci! Per sbloccare il meccanismo non importa perché e per chi lo fai. Importa che tu lo faccia». Così gli mando un messaggio semplice, usando il traduttore di Google, perché non so una parola di inglese. «Ciao, come va? Io sto partendo per il raduno». Lui risponde: «Ciao, buon raduno». Dico alla mia ragazza: minchia, guarda come mi ha risposto sto stronzo, io non ci parlo più… Ma abbiamo continuato a scriverci. Lo rivedrò l’anno prossimo perché l’ho invitato al mio matrimonio con Nicole… Certo, lui mi ha riconosciuto, ho il suo cognome e persino il suo nome, Lamont Marcell Jacobs, ma non ha mai dato un euro a mia madre e non si è mai fatto sentire.
Dopo la mia nascita era andato in una clinica di recupero per militari come lui. Aveva detto a mia madre: “Tu torna in Italia che io ti raggiungo”, invece è sparito. Il mio bisnonno ha abbandonato il nonno, mio nonno mio padre, lui me: è una specie di tradizione di famiglia. Il primogenito deve sempre essere lasciato. Io dovrei spezzare il meccanismo, ma per ora non ci sono riuscito. Jeremy, il mio primo figlio, mi è capitato: ero un ragazzo e l’ho vissuto malissimo, come chi sta facendo una cosa per altruismo, ma controvoglia. Non vorrei essere stronzo come è stato mio padre, ma alla fine sostanzialmente sto facendo più o meno quello che ha fatto lui. Rispetto a Anthony e Megan, i bimbi che ho avuto da Nicole, con Jeremy non ho un legame forte perché non ci ho mai vissuto. Quando vado a Desenzano lo vedo, ma non sono un padre presente. Lavorerò anche su questo…
Mia madre è il mio punto di riferimento. L’abbraccio all’aeroporto, di ritorno da Tokyo, voleva dire: mamma ce l’ho fatta. Lei si è fatta il mazzo per me, anche tre mestieri alla volta. D’estate andavo in camper con i nonni perché doveva lavorare. Il mio film del cuore è la biografia del rapper Fifty Cent. Ah, potrei vederlo un giorno sì e uno no. Racconta la storia di un ragazzo povero, che vive nella soffitta dei nonni perché gli hanno ucciso la madre, poi spaccia per fare soldi ed essere qualcuno, va in carcere, scrive musica, cambia vita. Gli hanno sparato otto volte, e quando ti sparano otto volte nello stesso momento e tu non muori, vuol dire che non devi morire. La voglia di rifarsi, di rimettersi in piedi… Sono le storie in cui mi ritrovo. La mia canzone preferita è quella di Rocky».
Tornato da Tokyo, appena mi sono spogliato dei vestiti del Coni e mi sono seduto sul divano di casa, tutta l’adrenalina se ne è andata di colpo e il monte Everest mi è caduto addosso. Una stanchezza! Ho rinunciato a un sacco di ingaggi in America, ma pensare di allenarmi e riadattarmi a un altro fuso orario era follia, rischiavo solo di farmi male. Così me ne stavo sul divano, guardavo Nicole e dicevo: più di vincere l’Olimpiade, che era il mio sogno di bambino, adesso che cavolo faccio? Poi ho guardato un po’ di gare in tv e mi è tornata la voglia di correre. Qualche giorno dopo Ferragosto sono uscito sul corridoio del mio condominio e ho provato un allungo. La prima corsa da campione olimpico e non l’ha vista nessuno... Di solito quel corridoio non lo faccio mai, piglio sempre l’ascensore.
L’uomo più veloce del mondo nella vita è lentissimo. Mi definirei un pigro che si dà da fare per far felici gli altri. Di mio vorrei dormire fino a mezzogiorno, e le poche volte che Nicole mi chiede di andare in centro, le rispondo: amore, andiamoci domani. Se mi lascia tre giorni in casa da solo, li passo sul divano a giocare alla Playstation e a ordinare cibo da asporto per non dovermi neanche alzare a cucinare. Cosa mangio? Caramelle. Più sono zuccherose, meglio è (confermo: nel corso dell’intervista ne ha divorate un pacchetto). In Giappone ho scoperto che il loro succo alla mela sa di caramella: ne bevevo otto solo la mattina!». «Mentre stavo sul divano con le mie caramelle, è successo di tutto. Tanti nuovi amici, troppi. Ma io ho un’agenda nella testa in cui so chi mi è vicino solo perché adesso sono qualcuno. Come dice Nicole, abbiamo risentito persone che non si facevano vive dal Novecento… Poi le malignità.
Hanno scritto persino che seguo Salvini su Instagram perché non voglio gli immigrati in Italia! La verità è che quando ho fatto il mio primo record italiano, Salvini ha cominciato a seguirmi sui social e io l’ho ricambiato per educazione. Non sono né di destra né di sinistra, di centro o delle stelle. Se fosse stato Renzi avrei fatto la stessa cosa. Comunque la popolarità mi piace da morire. Ho sempre desiderato essere riconosciuto per la strada. Quando andavo in bici perché i miei non volevano comprarmi il motorino, mi dicevo: «Cavolo, la gente che passa in macchina penserà “poverino, sto mezzo negretto che se ne va in giro con la bicicletta”. Non sanno che diventerò l’atleta più forte del mondo!».
Tutto quello che ho, l’ho desiderato, perciò adesso sono così sereno nel gestirlo. Ogni cosa accade per un motivo. Ai mondiali di Doha non dovevo correre forte perché non ero ancora pronto mentalmente per gestire il successo. Non mi turbano neanche le cattiverie gratuite sul doping. Nella vita esisterà sempre qualcuno che, non avendocela fatta, si rifiuterà di credere alla buona fede di chi ce la sta facendo. Io non conosco l’invidia, solo la competizione: se un altro ce la fa, voglio farcela anch’io. E non mi accontento di quello che ho. Cerco di raddoppiare. Senza sperperare, ma amo le cose materiali: vestiti, macchine, brillantini e tatuaggi. Mia madre diceva: non te lo lascerò mai fare, un tatuaggio! Appena diventato maggiorenne, qual è stata la prima cosa che ho fatto?
Quest’autunno andrò un po’ in tv. Ballando con le stelle? Vedi quella scopa lì nell’angolo? Sono io mentre ballo… Trovo giusto sfruttare tutto ciò che può farmi conoscere, ma sono anzitutto un atleta, il prossimo anno ci sono i Mondiali. Vi entrerò da campione olimpico e voglio uscirne da campione del mondo. Il segreto è arrivare al top della forma al momento giusto. A inizio stagione dirò: non aspettatevi un record alla prima gara, altrimenti ai Mondiali non ci arrivo… Quanto alla staffetta, voglio correre la quarta frazione, perché la gloria se la prende l’ultimo. Fino all’anno scorso il più forte era Filippo Tortu, quindi era giusto che l’onore toccasse a lui, ma adesso i ruoli si sono invertiti e chiederò di invertire anche le posizioni in pista. Con lui c’è sana rivalità, benché ora il mio obiettivo sia battere i numeri uno al mondo.
Ho 26 anni e voglio correre oltre i 30. Bolt ha smesso a quell’età, ma aveva cominciato a vincere a 22. Mi ha scritto un messaggio e non me ne ero neanche accorto, guarda! («Hai reso orgogliosa l’Italia, bravo!» con l’emoticon di tre avambracci scuri muscolosi). Adesso non vedo l’ora di riprendere ad allenarmi. Però so già che, appena arriverò al campo, il mio allenatore mi farà fare dodici volte i 120 metri, io al terzo scatto mi fermerò e gli urlerò: «Basta, Paolo, mi viene da vomitare». Allora Paolo si avvicinerà e mi dirà: «Vomita pure, Marcell. Vomita e poi ricomincia».