La Stampa, 10 settembre 2021
Abu Ghraib, il carcere della vergogna
L’America è amica del popolo iracheno. Questa frase era scritta su un cartello affisso all’entrata della prigione di Abu Ghraib, il complesso carcerario di 260 acri che ospitava migliaia di criminali e prigionieri politici sottoposti a indicibili torture per mano degli uomini di Saddam Hussein. Il cartello aveva sostituito proprio l’immagine dell’ex dittatore dopo l’inizio della guerra al terrore in Iraq, nel 2003.
L’anno dopo, nel 2004, abbiamo saputo cosa accadeva dentro la prigione, abbiamo visto le immagini dei soldati americani ritratti mentre ridevano in posa accanto a una piramide di prigionieri seminudi e incappucciati inginocchiati l’uno sull’altro, la fotografia di un cane famelico lanciato contro un detenuto in tuta arancione seduto a terra con il capo rasato e le mani legate dietro la schiena, il prigioniero in piedi su uno scatolone, cappuccio nero in testa con le braccia tese parallele al pavimento come un Cristo sulla croce, con i cavi elettrici e alla sua destra un soldato, americano, che osserva distrattamente delle foto appena scattate. E ancora l’immagine di una soldatessa del 372° battaglione di polizia militare statunitense in un corridoio del Braccio A1 della prigione, che trascina un iracheno completamente nudo al guinzaglio con una cinghia legata al collo, come un cane, peggio di un cane, osservandolo con soddisfazione.
È stato lo scandalo delle immagini di Abu Ghraib, nel 2004, a imporre all’opinione pubblica un dilemma morale: cosa siamo disposti a tollerare in nome della guerra al terrorismo?
Dopo l’11 settembre l’amministrazione Bush decise che vincere la guerra al terrore potesse voler dire anche eludere il diritto internazionale. Alla base del dibattito di quel periodo l’interrogativo era: gli Stati Uniti dovrebbero mai ricorrere alla tortura per ottenere informazioni da prigionieri qaedisti o sospetti complici? Tutto è andato nella direzione di affermare che si potesse – di più, che si dovesse: «C’è stato un prima e un dopo 11 settembre. Dopo, abbiamo tolto i guanti» disse Cofer Black, l’ex direttore dell’unità antiterrorismo della Cia, testimoniando di fronte al Congresso.
Il presidente Bush ha ripetutamente insistito sul fatto che questa nuova guerra al terrorismo avesse inaugurato un altrettanto nuovo paradigma, un «nuovo modo di pensare» il diritto di guerra, per dirlo con parole sue. E di conseguenza un nuovo modo di applicarlo. La teoria dell’amministrazione Bush era chiara: quella intrapresa dagli Stati Uniti era una battaglia a tutto campo, da una parte il bene, dall’altra il male. Una tale narrazione ha portato a ritenere che il fine giustificasse ogni mezzo.
Nella prima intervista dopo l’attacco alle Torri Gemelle, anche il vicepresidente Cheney era stato chiaro: «Sarà fondamentale, per noi, usare ogni mezzo a disposizione per raggiungere gli obiettivi». Le immagini di Abu Ghraib hanno reso impossibile non vedere, e dunque non sapere, quali fossero quei mezzi.
Dopo la pubblicazione delle fotografie i torturatori erano di fronte ai nostri occhi, avevano un nome, un cognome, un’età, una biografia: Sabrina Harman, ex pizzaiola, partita ventitreenne per la guerra d’Iraq. Bionda, con le ciocche di ricci sulla fronte, era stata lei a collegare i cavi elettrici al detenuto coperto di stracci in piedi sullo scatolone.
Charles Graner, baffi, occhiali, piuttosto in carne, studiava all’Università di Pittsburgh, un matrimonio, due figli, poi i Marines e la guerra del Golfo: diventa una guardia carceraria in Pennsylvania, dove ci sono il 90% di guardie bianche e il 70% di detenuti di colore, viene accusato di picchiare e abusare dei prigionieri. Arriva la guerra d’Iraq, il carcere di Abu Ghraib, e Graner che posa sul corpo di un prigioniero con il pollice alzato e il sorriso appagato. È sempre Graner seduto su un gruppo di altri detenuti, uno sull’altro, anche loro incappucciati, di fronte alle grate delle celle.
E ancora Lynndie England, cresciuta con il padre ferroviere Kenneth e la madre Terrie in una roulotte in West Virginia, cassiera di un supermercato, un matrimonio fallito a 19 anni e poi l’esercito. L’Iraq, Abu Ghraib e lei che finge di sparare con un mitra all’inguine di un prigioniero, in fila con altri detenuti nudi costretti a masturbarsi di fronte a lei. Condannata a sei mesi di carcere per la condotta assunta in Iraq, si disse esplicitamente «mai pentita» per quello che aveva fatto, perché «tutto questo non era nulla rispetto a quello che gli iracheni avevano fatto a loro». Il fine aveva giustificato i mezzi.
La reazione alla pubblicazione delle immagini degli abusi fu una corale indignazione. Le testimonianze, i rapporti militari riempivano le pagine dei giornali di tutto il mondo. «Torture a Abu Ghraib». «L’incubo di Abu Ghraib«. «Torturati abusati e umiliati, le scioccanti immagini di Abu Ghraib», sono solo alcuni dei titoli dei giornali di allora. L’Economist chiedeva le dimissioni dell’allora segretario della Difesa Donald Rumsfeld, lo Spiegel titolava: «Abu Ghraib la vergogna americana», in copertina su Time c’era un uomo, un prigioniero incappucciato a petto nudo, e il titolo: «Come siamo arrivati a questo?».
Le indagini accertarono l’esistenza di una catena di comando che coinvolgeva le più alte sfere di potere; eppure i vertici militari statunitensi e il presidente Bush tentavano di arginare il caso parlando di mele marce, di sporadici episodi di violenza, anziché assumersi la responsabilità di tecniche che erano ormai diventate metodo, strategie di interrogatorio, consuetudini militari.
Dopo lo scandalo delle fotografie, Bush disse: «Sotto il regime di Saddam Hussein le prigioni come Abu Ghraib erano simboli di morte e tortura. Quella stessa prigione è diventata un simbolo di condotta vergognosa da parte di alcune truppe americane che hanno disonorato il nostro Paese e disprezzato i nostri valori». In queste parole c’era tutto l’inganno della narrazione della guerra al terrore: gli abusi sui prigionieri sotto il regime di Saddam Hussein erano torture, se perpetrati da soldati statunitensi quegli stessi abusi erano declassati a «condotte vergognose». L’asimmetria morale alla base del fine che giustifica i mezzi.
Oggi, dopo vent’anni, sappiamo quanto siano inefficaci le pratiche di tortura negli interrogatori per ottenere informazioni utili, sappiamo che i dettagli derivati dalle torture su un sospettato si sono spesso verificate false. Oggi, dopo vent’anni, sappiamo anche che quello che ci ha indignato delle fotografie di Abu Ghraib non era solo lo scandalo della violenza, era anche l’insopportabile sensazione di vedere noi stessi riflessi in quei torturatori.
Ciò che irritava nei volti degli ex pizzaioli, ex cassieri, ex guardie carcerarie diventati aguzzini era la traccia di un mondo che era il nostro, prossimo, vicino, troppo vicino per non farci chiedere cosa fossimo in grado di accettare di una guerra fatta in nome della nostra sicurezza. Le fotografie di Abu Ghraib sono state il seme di un processo profondo, quello che ha portato a considerare necessaria, legittima, ma soprattutto inevitabile la violenza e la tortura. E mentre questo avveniva, mentre trovavamo necessario e contemporaneamente intollerabile vedere persone simili a noi che torturavano dei detenuti, non ci siamo chiesti abbastanza chi ci fosse dietro i sacchi neri, gli stracci o i passamontagna, di cosa fossero davvero accusati i prigionieri costretti a masturbarsi di fronte ai soldati, nudi in corridoio, minacciati dai cani o dai cavi elettrici.
Oggi sappiamo che Abu Ghraib ospitava una popolazione in gran parte innocente: circa il 70-90% dei prigionieri è stato detenuto per errore, secondo un rapporto del 2004 della Croce Rossa Internazionale. Oggi sappiamo anche che è nelle carceri in cui la «coalizione dei volenterosi» deteneva sospetti jihadisti che è cresciuta una nuova generazione di miliziani, pronti a un nuovo jihad, che non temono la sconfitta temporanea, che hanno un altro senso del tempo, che non ragionano sull’immediato, ragionano in chiave storica. Che non pensano solo in termini territoriali e geografici. Pensano secondo una prospettiva temporale e simbolica.
L’inganno della presunta supremazia morale della guerra al terrore ha fatto smarrire le domande fondamentali sulle prospettive simboliche dei jihadisti, domande che ci trascinano nelle conseguenze anche di questo caotico, disastroso ritiro delle truppe dall’Afghanistan: sappiamo davvero chi sono questi fanatici? Ci siamo davvero interrogati sull’universo narrativo alla base del reclutamento di nuovi soldati del jihad? O ci siamo bloccati un passo prima, fermi sull’uscio, pensando che la giustizia si ottenesse con la vendetta?
I corpi torturati di Abu Ghraib ci hanno restituito l’immagine brutale di una fisicità sottomessa, umiliata, di cui l’Occidente era responsabile. Ci hanno consegnato una domanda a cui, forse, dopo vent’anni non abbiamo ancora dato risposta: possiamo tollerare tutto questo per proteggerci?
Tornano in mente le parole di Jean-Paul Sartre, l’introduzione che scrisse al libro La question di Henri Alleg, editore del quotidiano di opposizione Alger Républicain e fermo sostenitore della lotta di liberazione anticolonialista. Era il 1958, in piena guerra d’Algeria. Scriveva Sartre: «Oggi sappiamo che non c’è nulla da comprendere; tutto si è compiuto insensibilmente, con abbandoni impercettibili; quando abbiamo levato il capo, abbiamo visto nello specchio un volto sconosciuto, odioso: il nostro. Atterriti dallo stupore, i francesi scoprono questa evidenza terribile: se niente vale a proteggere una nazione contro sé stessa – né il suo passato, né le sue fedeltà, né le sue proprie leggi –, se bastano quindici anni per cambiare le vittime in carnefici, allora chi decide è l’occasione; basta l’occasione a trasformare la vittima in carnefice: qualsiasi uomo, in qualsiasi momento».
Qualsiasi uomo, in qualsiasi momento, dunque: noi.
Sappiamo davvero chi è l’altro che vogliamo sconfiggere? —