La Stampa, 10 settembre 2021
Jalalabad, la culla del terrore
Il pick up della pattuglia taleban percorre a passo lento il grande viale che attraversa la città, avanti e indietro senza sosta, facendosi largo nel fiume di veicoli che ingrossano il traffico dell’ora di pranzo. Un moto perpetuo accompagnato dalle grida di acclamazione della folla e dai clacson delle macchine che scandiscono note di giubilo per i fondamentalisti delle madrasse. Hanno catturato tre malviventi dediti da tempo a rapimenti di piccolo cabotaggio con cui seminavano terrore tra la popolazione. I tre sono seduti sulla parte posteriore del furgoncino, le mani legate dietro la schiena, gli sguardi bassi e l’atteggiamento rassegnato di chi sa che la gogna pubblica è il meno delle pene che li attende. Per loro la Sharia prevede punizioni esemplari, fustigazioni, taglio della mano o anche peggio. Ma prima di tutto sono merce di scambio dei taleban che passandoli in rassegna incassano il consenso della gente di Jalalabad con cui puntano a consacrare il ruolo di movimento d’ordine per affrancarsi nell’Afghanistan del nuovo Emirato.
In questo senso Jalalabad è un laboratorio ottimale perché presenta le caratteristiche più propizie a sperimentazioni: è lontana dai riflettori di Kabul, che rendono il comportamento dei mullah più rigido per ovvi motivi politici, è la capitale del Nangarhar, la provincia orientale che nel suo tratto più ad Est sino alle alture del Khyber Pass rappresenta la culla del terrore e al contempo la tomba degli eserciti invasori. Ed infine ha una struttura economica piuttosto dinamica sia per il fatto che sorge alla confluenza dei fiumi Kabul e Kunar sia per la sua vicinanza con il valico di frontiera di Torkham, che ne fanno una realtà commerciale più flessibile e dinamica rispetto al resto del Paese. È pertanto l’ambiente dove i «nuovi» taleban possono condurre i propri esperimenti sociali, da una parte sul piano della sicurezza rivendicando il ruolo di governo del «law & order» interpretati sempre secondo i precetti del Corano.
Lo si nota già al confine con il Pakistan, punto di congiunzione delle aree tribali, considerate le vecchie officine delle armi ai tempi dell’invasione sovietica. Il comandante del presidio garantisce assistenza a chiunque si diriga verso la valle di Nangarhar costeggiata dalle montagne rifugio dei peccatori che portano il nome di Isis-K. Per qualsiasi problema fornisce il suo numero di cellulare e lui stesso chiama i frequenti posti di blocco lungo il tragitto, che sono in contatto fra loro via radio. Sembra quasi di essere scortati lungo quella strada disseminata di insidie, se non fosse che il miliziano di turno si senta in dovere di far sfoggio di prove muscolari al passaggio di un occidentale. L’altro aspetto su cui puntano i taleban è riciclarsi come una sorta di garante del welfare, ovvero lo «Stato buono» che va in soccorso della popolazione «ridotta in ginocchio a causa dei fallimentari governi manovrati dall’invasore americano». Una sorta di modello assistenzialista che aiuta il cittadino meritevole a trovare casa, lavoro e studi adeguati (ancora non è chiaro se ciò valga anche nel caso si tratti di una donna). È stato del resto proprio il principio del welfare che ha consentito ai taleban di radicarsi nelle aree rurali garantendo ai contadini protezione contro i taglieggiamenti dei banditi in cambio del versamento di imposte «eque». Specie se rapportate alle onerose e reiterate gabelle riscosse dal governo nelle sue declinazioni, statale, provinciale e distrettuale. Un modello che si potrebbe ispirare a Hezbollah in Libano, seppur con le dovute distinzioni a partire dal carattere diversamente settario dei due movimenti.
Il sogno dei taleban è trasformare Jalalabad in una sorta di Beirut sud, dove tutto parla il linguaggio del partito di dio, a partire dalle cooperative di lavoro per arrivare alle strutture turistiche sino al controllo della maxi strada che collega l’aeroporto alla capitale libica. Del resto se qualcuno ha azzardo ad accostare il nuovo Emirato, nella sua struttura di vertice, a una sorta di teocrazia sul modello iraniano, sul piano socio-economico non appare un azzardo ipotizzare una contaminazione dal basso. Jalalabad è sempre stata un laboratorio politico dell’Afghanistan. Chi ha vissuto il primo Emirato, quello durato dal 1996 al 2001, ricorda il particolare attivismo dell’ufficio religioso della città a partire dalle scenografie della sharia. «Nel cortile della caserma c’era un albero secolare sui cui rami erano appesi migliaia di nastri di audiocassette bandite dai taleban che vedono nella musica una forma di blasfemia», racconta Bilau anziano con tunica e turbante bianchi che siede davanti all’emporio di spezie. «Con le antenne delle tv ci facevano allestimenti che venivano poi distrutti come rito purificatore da blasfemia, mentre gli armadi erano pieni di bottiglie di alcolici sequestrate». Come mai quel «veleno» non venisse gettato nelle fogne non è dato sapere.
Le ronde della Sharia, inoltre, prendevano a frustate i titolari dei banchi del mercato per farli chiudere e andare a pregare in moschea, scortandoli poi al ritorno alle loro botteghe per proteggerli da eventuali sciacalli. Caso elementare di bastone e carota. Immagini che, almeno ad ora, non si sono viste nel nuovo Emirato (almeno quello urbano) dove per altro la musica da qualche parte viene trasmessa e anche a volume godibile. Come la griglieria nel centro di Jalalabad, un locale al neon che assomiglia a un incrocio tra un karaoke e una sala bingo, dove la specialità sono spiedini di carne che assomigliano a strumenti di tortura medievale.
Chiediamo al proprietario perché trasmetta musica a volume elevato sotto gli occhi delle ronde taleban. «Non è musica, sono preghiere arrangiate su note della tradizione sacra», risponde. Una sorta di gospel in salsa pashtun, sebbene non sfugga che qualcuna di quelle note si avvicina di più ai ritmi pop delle pellicole Bollywoodiane. Poco importa, la polizia religiosa di Jalalabad non è quella dell’albero delle musicassette, specie se l’escamotage sia funzionale all’opera di make-up messo in piedi dalla propaganda dei mullah più ravveduti. L’obiettivo è infatti convincere all’interno e all’esterno che oggi si possono fare più cose di due decenni fa e che l’isolamento di allora ha lasciato il posto al welfare che verrà. Una sorta di microriformismo autarchico della Sharia che, per mancanza di alternative, al momento è l’unico in grado di governare il Paese partendo proprio dal laboratorio della «città stato» di Jalalabad. Ma con l’opzione di stringere i cordoni delle libertà in qualsiasi momento, sempre in nome di Dio