Corriere della Sera, 10 settembre 2021
La morte di Livatino
È il 21 settembre 1990 quando il giudice Rosario Livatino, 37 anni, viene assassinato sulla strada che conduce da Canicattì ad Agrigento da sicari della «Stidda» agrigentina, organizzazione mafiosa in contrasto con Cosa Nostra.
Livatino è a bordo della sua vettura, una vecchia Ford Fiesta rossa, quando è speronato dall’auto dei killer. Tenta disperatamente una fuga a piedi attraverso i campi limitrofi, sotto il viadotto Gasena ma, già ferito da un colpo a una spalla, è raggiunto dopo poche decine di metri e freddato a colpi di pistola. Sul luogo dell’assassinio sopraggiungono i migliori investigatori siciliani, tra i quali il giudice Falcone che rimane fortemente scosso dall’accaduto. Continua il prezioso e coraggioso lavoro di Emilia Brandi sulle storie nefaste di mafia, sui percorsi di redenzione dalla criminalità e sui segreti dei boss più noti e crudeli: «Cose nostre» (Rai1, ora su Rai Play).
La storia del giudice Livatino è raccontata attraverso le interviste ai protagonisti dell’epoca, tra cui una esclusiva a Pietro Ivano Nava, ex agente di commercio lombardo che mentre era in viaggio di lavoro in Sicilia vide i killer del giudice in azione. Nava rese subito testimonianza alla polizia, ma le sue dichiarazioni, fondamentali per individuare gli esecutori del delitto, gli costarono caro. Da allora, Nava ha dovuto cambiare nome e vita, lui e la famiglia, ma che oggi ripete «lo rifarei ancora». Killer e mandanti sono stati individuati e condannati.
Livatino non aveva alcuna scorta. Unica protezione, la preghiera. Nell’agendina che trovarono accanto al cadavere, c’era una sigla: «Std: “Sub tutela Dei”». Sotto la protezione di Dio. Sotto il suo sguardo. Una volta disse: «Quando moriremo, nessuno ci verrà a chiedere quanto siamo stati credenti, ma credibili».
È venerato come beato e martire dalla Chiesa cattolica.