Il Sole 24 Ore, 9 settembre 2021
Ecco il team economico talebano
Se il buongiorno si vede dal mattino, c’è di che essere preoccupati. E molto. I ministri del nuovo governo talebano somigliano un po’ troppo ai vecchi talebani. Solo per menzionarne qualcuno, un ricercato dall’Fbi per terrorismo, su cui pende una taglia di 10 milioni di dollari, sarà ministro degli Interni. Un oltranzista, sotto sanzioni Onu, il premier, un altro ricercato con tanto di taglia, il ministro dei rifugiati, e due ex prigionieri di Guantanamo occuperanno altre poltrone.
Se questo era il tanto atteso governo dell’Emirato islamico dell’Afghanistan, deputato a tessere un difficile dialogo con l’Occidente, tutto suggerisce che le chance di successo siano poche. Ma qualcosa occorre fare. E in fretta. Prima che il Paese precipiti in una crisi finanziaria senza precedenti capace di far scoppiare un’altrettanto grave crisi umanitaria.
Urge subito mettersi al lavoro. Ma come? E con chi? Se si fosse in un Paese “normale” la priorità sarebbe un piano attraverso cui rilanciare l’economia. Dunque avviare subito colloqui con funzionari e tecnici afghani. Ma nell’ipotesi migliore, le nuove autorità incaricate di guidare la Banca centrale, o presiedere i ministeri chiave dell’Economia e della Finanze, sono emeriti sconosciuti o religiosi. Basta vedere i curricula, quando ci sono. Le materie dell’economia e delle finanze non figurano da nessuna parte.
Iniziamo da Mohammad Idris, il neo governatore della Banca centrale afghana. L’uomo che dovrà inventare una politica monetaria di emergenza lascia perplessi sulle sue capacità. La sua posizione più prestigiosa è stata la nomina di capo della Commissione economica dei talebani. Una sorta di super ministro del Tesoro che si occupava tuttavia di affari illeciti per finanziare la guerriglia. In altre parole, supervisionava il gettito fiscale che finiva nelle casse degli insorti. Che in realtà erano estorsioni imposte alla popolazione nei territori da loro controllati. Oltre a gestire gli ingenti flussi di denaro provenienti dal contrabbando dei minerali e di altre merci. «Idris affronterà gli incombenti problemi del settore bancario e della popolazione», ha assicurato il portavoce dei talebani Zabihullah Mujahed.
Ma una cosa è occuparsi di gettiti illeciti di denaro destinati alla guerriglia, altra è elaborare una politica monetaria e finanziaria capace di vincere la diffidenza all’estero e salvare un Paese avviato al disastro.
Da giorni i bancomat funzionano a singhiozzo. Gli istituti di credito sono sull’orlo della bancarotta, la moneta locale, già ai minimi storici, sta prendendo la china dell’iper-svalutazione, l’inflazione galoppa (i prezzi dei generi alimentari sono a livelli record). Su tutto pesa una gravissima carenza di liquidità. «L’offerta di moneta fisica dell’Afghanistan sarà compromessa. Questo perché la banca centrale non stampa la propria valuta», ha scritto su Bloomberg Ajmal Ahmady, ex Governatore della Banca centrale afghana, fuggito negli Usa prima che capitolasse Kabul.
Ahmady ha poi sottolineato come due miliardi di “afghani” (la valuta locale) di piccolo taglio dovevano essere stampati da una società polacca ed arrivare in agosto. La banca centrale aveva poi firmato un contratto con un’azienda francese per la fornitura di altri 100 miliardi di afghani per il 2022. «Sono relativamente certo che queste consegne non possano essere effettuate» ha precisato.
Un grattacapo anche per il nuovo ministro dell’Economia. Per quanto più conosciuto, Din Mohammad, 61 anni, somiglia più a un politico esperto di religione che ad un economista. Ex membro del Consiglio supremo, faceva parte del team di negoziatori in Qatar. Nel primo Emirato dei Talebani (1996-2001) era ministro della pianificazione e dell’alta educazione. Di lui si racconta che a 15 anni conoscesse il Corano a memoria. E che, fuggito in Pakistan durante la guerra, continuò l’iter del Dars-i Nizami. Che non contempla materie economiche.
Di Mullah Hidayatullah Badri, l’attuale ministro delle Finanze, si sa poco o nulla. Se non che sia anche lui un religioso. La “troika” afghana insomma non sembra avere i numeri per convincere gli americani a scongelare i 10 miliardi di dollari di riserve della Banca centrale. D’altronde i talebani sono ancora sotto sanzioni. E nessun Paese sembra voler intraprendere azioni rischiose. Per ora nemmeno la Cina.
In questo vuoto creatosi tra il vecchio governo riconosciuto dalla comunità internazionale e quello dei talebani ci sono milioni di salari pubblici da pagare. Già prima dell’avvento al potere dei talebani, oltre la metà della popolazione dipendeva da aiuti umanitari. Considerando che gli aiuti dall’estero rappresentavano i 3/4 delle spese governative, e che secondo l’Onu incombe una gravissima crisi alimentare, i talebani non sanno più che pesci prendere.
Quello di cui hanno più bisogno è il know how per vincere la diffidenza dei Paesi stranieri. Ecco perché, ancora di più della fuga di capitali, che ormai sono esauriti, i talebani temono molto di più un’altra fuga, quella dei cervelli. Senza di loro la bancarotta del loro Emirato appare inevitabile.