la Repubblica, 9 settembre 2021
Intervista a Claudio Santamaria
VENEZIA — Degli umanissimi mostri che Gabriele Mainetti porta in concorso a Venezia con il colossale Freaks out, Claudio Santamaria è quello più irriconoscibile, il volto sepolto da una fitta coltre di pelo.Con i compagni d’avventura vivrà un’odissea attraverso la Roma occupata del ’43, tra bombardamenti, rastrellamenti, circhi nazisti, brigate partigiane. Nel film, in sala il 28 ottobre, i freaks, alternando piccole vigliaccherie e scelte coraggiose, troveranno il loro spazio e scopo nella grande Storia.L’appuntamento con Claudio Santamaria è per il caffè, la mattina presto, sulla terrazza dell’Excelsior.Guarda con desiderio il mare, “e se facessimo l’intervista con i piedi a mollo?”. Lo riporta alla realtà la moglie Francesca Barra, in un abito nero che maschera la silhouette da quinto mese di gravidanza.Che significa essere qui con “Freaks out”?«La fine di un viaggio iniziato molto tempo fa e la realizzazione di un sogno: vedere il cinema italiano di nuovo giocare anche con temi forti come la discriminazione. La lezione di Freaks out, nel suo essere fantasmagorico, esplosivo, è che tu devi abbracciare per primo la tua diversità e poi sperare che gli altri la comprendano».Con Gabriele Mainetti c’è un rapporto forte.«Ci conosciamo da vent’anni, dall’incontro a un corso di recitazione. Già mi raccontava di storie che aveva scritto, cortometraggi da realizzare. Nel tempo è nata prima una forte amicizia. E poi c’è stato Lo chiamavano Jeeg Robot, che ha cambiato la vita di entrambi. Siamo più uniti che mai. Quando ho letto questa sceneggiatura ho avuto lo stesso entusiasmo di allora».Una sfida recitare con il volto coperto di peli.«Abbiamo voluto dare grande personalità, una storia, un vissuto al personaggio, immaginando per lui una provenienza nobiliare, anche se la famiglia lo aveva rinchiuso per dieci anni in una gabbia. È un gran lettore, istruito, parla molte lingue, ma malgrado tutto questo sa che il mondo lo vede solo come un mostro, perciò è disilluso».Com’è stato il trucco?«Quattro ore e mezza per farlo, quaranta minuti per toglierlo, peli che entravano negli occhi costringendo a fermare la scena, mollette sulle guance quando mangiavo, ingoiando comunque ciuffi di peli. Cose che mi rendevano nervoso, un nervosismo che ho trasmesso al personaggio».Il film guarda a Hollywood, ma anche alla tradizione della commedia italiana, da Scola a Ferreri.«Gabriele ha in sé gli stilemi della commedia all’italiana, cosa che in altri Paesi non riescono a capire. Me lo ha sempre detto anche Muccino: in America non riescono a comprendere quel sorridere nel dramma che ne è cuore pulsante.Mainetti ha anche sempre avuto una grande fascinazione per il fumetto, il cinema americano, quello rocambolesco, d’azione, splatter. Orchestra questi ingredienti come un grande chef, è il suo talento».Essere qui a Venezia?«Venendo qui volevo postare una storia per ogni minuto che vivevo. Ho ricordi bellissimi, ed è il primo grande evento a cui partecipo dopo due anni di vita ritirata».Come ha trascorso il tempo?«Abbiamo scritto una sceneggiatura, con Francesca, di un film sulla ‘ndrangheta in cui spero reciterò. («Glielo dico io cosa ha fatto: suona la tromba», interviene la moglie, ndr). Sì, l’ho imparata per il film di Avati, quindici anni fa, ho ripreso durante il lockdown, mi esercito tutti i giorni, il jazz («Sì però prima fa le scale, una cosa da chiedere il divorzio», controbatte Barrese). Francesca mi confina in camera con la sordina, anche nella camera d’albergo». («Abbiamo portato due bambini qui a Venezia.La tromba è un altro figlio», ride lei indicando il pancione).La società è cambiata rispetto alla diversità?«Quel che alleggerisce il fardello della diversità è che se ne parli.L’opinione pubblica può fare molto, l’esplosione dei social è un’arma a doppio taglio, ma può servire ad allargare il pensiero. La cultura vince la discriminazione».Essere padre l’ha cambiata?«Sì, è una grande gioia, ma anche una responsabilità, di sicuro è più facile fare un film che fare il padre.Bisogna dare gli strumenti a questi ragazzi, nutrire la loro anima, far loro guardare il mondo attraverso le lenti della bontà».Si è mai sentito discriminato?«Da piccolo. All’asilo mi chiamavano il bell’addormentato nel bosco, con i miei occhi a mezz’asta. Quello per me è stato motivo di sofferenza, a volte anche di discriminazione. A un bambino basta una parola per esser ucciso.Dico una banalità, ma è successo a me diventando attore: quando hai un buco e riesci a trasformarlo nel tuo punto di forza, allora hai vinto».