la Repubblica, 9 settembre 2021
La storia di Marìa e Ana che 19 anni fa furono scambiate in culla
Quando si dice «cambio vita», si dice sempre una mezza verità. Perché la vita è una, è quella; e al massimo si aggiusta. Le vite che non abbiamo vissuto, le vite che avremmo potuto vivere fanno più volume di quella che viviamo davvero. Però se un destino che è stato avverso con te non spettava a te, e lo scopri, hai qualche buona ragione per chiedere un risarcimento. María l’ha quantificato in tre milioni di euro, dopo avere saputo di essere stata scambiata in culla. È accaduto diciannove anni fa a Logroño, una città spagnola sulle sponde dell’Ebro.
Nate lo stesso giorno, in un ospedale che oggi non c’è più, a distanza di cinque ore, Ana e María sono finite, per ragioni di peso, prima nell’incubatrice e poi nelle braccia dei genitori sbagliati. María (nome fittizio) è cresciuta con sua nonna, per via di un padre assente, che non si è mai preso cura di lei. Quando la sua non-madre ha fatto causa al marito per l’indecente latitanza, un test del Dna ha confermato a María ciò che aveva sempre un po’ sospettato: di non essere a casa sua. La donna che ancora supponeva le fosse madre si è rivelata non-madre a seguito di un ulteriore test; e così si è polverizzata in un istante una presunta appartenenza, una erronea, insopportabile familiarità.
Il quotidiano spagnolo che ha seguito il caso racconta che anni fa, quando il non-padre di María si rifiutava di pagarle gli alimenti, si giustificò davanti a un giudice dicendo che quella ragazzina non era sua figlia biologica. Ecco che un crudo, tristissimo presentimento non viene smentito, ma avvalorato. Il fatto, però, è che non può bastare sapere di chi non sei: María ha cercato di capire di chi fosse, o più semplicemente chi fosse lei. «Ditemi chi sono» ha chiesto infatti agli avvocati che poi si sono presi l’impegno di sbrogliare la matassa. Prima di arrivare a capire che il filo della vita di María si era intrecciato con quello di Ana, ci è voluto un po’. Diciassette fili possibili, diciassette bambine. La conclusione? La bambina della culla 6 fu portata al seno della mamma che aspettava la bambina della culla 7. E lì la vita di María è diventata la vita che non era la non sua.
Il ministero della Salute – in attesa del test del Dna sul padre di Ana – le ha offerto molto meno della richiesta. Il governo regionale liquida il caso come frutto di errore umano. Risalire al responsabile, due decenni dopo, è praticamente impossibile. Come pure – almeno per ora – sapere che ne pensa l’altra, l’altra “figlia cambiata”. Che ne pensa Ana. Che pure ha vissuto come sua un’esistenza altrui. Chi può dirlo? Magari non le è passato nella testa il sospetto nemmeno per un lampo. Nemmeno un pomeriggio in cui abbia pensato: vorrei non essere qui. E d’altra parte il sangue non è tutto, le combinazioni genetiche si impastano con qualcosa di più decisivo: gente comunque sconosciuta che prende in carico la gestione di un’infanzia. Appartieni al primo corpo che ti accudisce e ti nutre, e non necessariamente è quello di chi ti ha messo al mondo. Dopotutto, potrebbe essere chiunque. María rivuole indietro un’altra vita, quella che doveva vivere. E Ana? Se ad Ana fosse bastata quella che fin qui ha vissuto?
È una storia dolorosa. È una storia buona per scrittori. Il principe e il povero che decidono di scambiarsi la vita in un romanzo di Twain finiscono poi per pentirsi. La verità è che possiamo immaginare tante vite, ma non rinunciare alla nostra. L’ha scritto Giuseppe Pontiggia in un romanzo bellissimo, intitolato, non a caso, “Nati due volte”. La prima nascita è un puro, quasi banale, evento biologico. La seconda è più complicata, non dipende da noi – ed è tutto quello che abbiamo.