Corriere della Sera, 9 settembre 2021
Ontervista a Jamie Lee Curtis
Anticonformista, brillante, fascino androgino e fisico da eterna pin-up. Proprio come uno se la immagina. Figlia di due leggende, Tony Curtis e Janet Leigh, l’attrice di Psyco il cui urlo sotto la doccia equivale a quello del quadro di Munch, Jamie Lee Curtis arriva a piedi nudi, con le scarpe in mano, i capelli corti sale e pepe.
È al Lido per un doppio appuntamento: il Leone d’oro alla carriera e il film Halloween Kills di David Gordon Green (nelle sale dal 21 ottobre per Universal) nuovo capitolo della saga che ha accompagnato per mano la sua carriera. Ma prima parliamo di sua figlia Ruby che all’anagrafe si chiamava Thomas. Una notizia che ha fatto il giro del mondo, e che ricorda, al contrario, il percorso di Chazz Bono, il figlio di Cher e Sonny Bono che era di sesso femminile alla nascita.
Jamie, è vero che sarà lei, il prossimo anno, a celebrare le nozze di Ruby?
«Sì, lo confermo».
Una sorta di rinascita?
«Tutti noi rinasciamo ogni giorno. La mia mente cambia costantemente. La vita è una continua metamorfosi».
È stato un processo difficile, in una società puritana come quella americana?
«Non è la mia vita ma quella di Ruby. Io sono la madre e la bellezza di essere genitori sta nel supportare e proteggere i propri figli. Starò sempre dalla sua parte. Cerco di essere una buona mamma».
Invece il rapporto con suo padre, Tony Curtis…
«Di fatto non l’ho conosciuto. Ha divorziato che avevo tre anni e subito dopo ha fatto altri due figli. Se ho sofferto della sua mancanza? No, affatto. È stata mia madre che mi ha cresciuta».
Lei è la regina dei film horror, un genere che non le piace, ha detto prima, alla conferenza stampa.
«Non è che non mi piace, non sia così gentile: lo odio. Però mi ha dato la mia vita, i fan dell’horror sono unici. E mi consente di essere qui al Lido per la prima volta con un film. Siamo in una bolla, io vivo nella realtà e questo non è il mondo reale. Anche da turista non posso dire di conoscere bene Venezia, l’ho scoperta con mio marito otto anni fa».
Resta il paradosso: detesta ciò che le dà successo.
«Sono grata al mio personaggio, Laurie Strode. Lo interpreto da 43 anni, non credo ci siano precedenti nel cinema di un ruolo con questo arco di tempo».
Nel film ha i lunghi capelli color paglia.
«È cambiata anche Laurie, nel fisico e nel carattere. La sua rabbia coincide con quella delle donne che subiscono traumi e violenze. John Carpenter è il nostro mentore, nonché l’autore delle musiche: sapete che aveva una rock band e ha cominciato come musicista, prima di diventare regista? Laurie ha una figlia e una nipote. Pensa di avere ucciso Michael Myers, il malato di mente con la maschera bianca che scappò dall’ospedale psichiatrico e la perseguita da sempre. La scia di sangue si estende all’intera cittadina. Questo è il secondo film della trilogia di David. Poi il viaggio continua».
Rivede mai i suoi film?
«No, mai».
Lei di cosa ha paura?
«Di tante cose, anzitutto dell’Afghanistan. Se vedete su Internet una mia foto da piccola, ho gli occhi di fuori dallo spavento. Non ho nessuna formazione come attrice. Mi preparo emotivamente. Sullo schermo mi vedete impaurita e mi capita di esserlo per davvero. Sono capitate cose terribili anche a me» (si riferisce a quando era dipendente da antidolorifici oppiacei, ndr).
Quali suoi film salva?
«Halloween, Un pesce di nome Wanda e True Lies. Mi hanno detto che in Italia Una poltrona per due viene trasmesso ogni anno alla vigilia di Natale, dunque lo metto come quarto. Questa onda d’affetto, questo senso del tempo mi lusingano, siete così diversi dagli americani».
Il Leone d’oro che cosa rappresenta?
«È difficile pensare a un premio alla carriera, lo si dà quando finisce. Mi sento più creativa che in passato. Ma sono onorata e riconoscente. Mi sento responsabile su ciò che pensate di me, da questo dipende il lavoro che mi viene offerto. Le dispiace se resto senza scarpe?».