Corriere della Sera, 9 settembre 2021
Abbiamo bisogno degli Usa
L’ultimo soldato sovietico, il generale Boris Gromov, lasciò l’Afghanistan il 15 febbraio del 1989. Il Muro di Berlino cadde nel novembre, nove mesi dopo. L’Urss si dissolse nel Natale del 1991. L’impero comunista non sopravvisse alla sconfitta a Kabul.
La fine dell’impero britannico – ha ricordato di recente lo storico Niall Ferguson – cominciò dopo una crisi finanziaria e una disastrosa pandemia, l’influenza spagnola del 1918-19. Gli Stati Uniti, in un lasso di tempo paragonabile, hanno conosciuto l’una e l’altra.
Impressionanti paralleli storici stanno rilanciando in queste settimane le profezie del «declino americano». Molti credono che il Duemila non sarà, come è stato il Novecento, il «secolo americano». D’altra parte tutti gli imperi prima o poi finiscono, non foss’altro che per il loro «overstretch», per essersi cioè allungati troppo, senza avere più le risorse economiche e militari sufficienti a controllare la vasta area del mondo su cui estendono i propri interessi. Dal punto di vista militare l’America non ha ancora rivali; ma i suoi soldati, a centinaia di migliaia, sono presenti in 150 Paesi. Dal punto di vista economico la crisi del 2007-08 ha convinto la Cina e il mondo che il re è nudo: il turbo-capitalismo anglosassone, fino ad allora imitato ovunque (anche a Pechino), non è inarrestabile, e anzi può esportare le sue crisi.
I sintomi del declino insomma ci sono. Ma verrebbe da dire: ai posteri l’ardua sentenza.
Più che le sorti degli Usa, infatti, a noi europei devono interessare le sorti del mondo che verrà «dopo» gli Usa. La vera domanda che ci riguarda non è se stiamo assistendo alla caduta dell’impero americano preconizzata da Paul Kennedy già alla fine degli anni 80, cosa sulla quale è più che lecito avere dubbi. Ma piuttosto se l’America sia ancora la «nazione indispensabile». Se cioè il mondo possa sperare in un ordine sostanzialmente pacifico e prospero, e allo stesso tempo caratterizzato dall’espansione della libertà, dei diritti umani e della democrazia, senza la guida degli Stati Uniti. Anche su questo è lecito dubitare.
Fu Madeleine Albright, forse l’ultima grande Segretaria di Stato americana, a usare la definizione di «nazione indispensabile», a ridosso dell’ultima occasione in cui gli Usa hanno accettato di fare «la guerra degli altri»: l’intervento del 1999 contro la Serbia e a difesa del Kosovo. Era l’idea degli Stati Uniti garanti della stabilità internazionale, in quanto unica superpotenza rimasta. Ma era anche una riformulazione del principio dell’«eccezionalismo americano», la convinzione cioè che quella nazione abbia un dovere speciale nei confronti del mondo intero, perché speciali sono i valori che rappresenta. Questa teoria è stata spesso interpretata come una mera manifestazione di imperialismo. Eppure il sentimento di avere una missione universale ha accomunato nella storia tutte le nazioni nate da una rivoluzione: dall’Urss, alla Francia, alla Gran Bretagna.
Da allora, forse proprio in seguito all’11 Settembre, gli Stati Uniti hanno proceduto a una selezione sempre più stretta del loro interesse nazionale. Le due guerre in Afghanistan e in Iraq si sono rivelate «guerre americane», per quanto rivestite di motivi morali e di impegni di «nation building». Già da Obama, poi con più rozzezza da Trump, e infine con sorprendente sincerità da Biden, è arrivato il messaggio che l’America si ritirava dai campi di battaglia dove riteneva di aver raggiunto il suo scopo primario. Prendere Bin Laden e distruggere Al Qaeda in Afghanistan. Esternalizzare lo scontro con il fondamentalismo islamico in Iraq. Portare cioè il terreno della battaglia lontano dal suolo nazionale, accettando di perdere soldati per salvare civili. In fin dei conti di questo si è trattato. Ora lo scambio non è più necessario, da vent’anni il terrorismo non colpisce più in America, e dunque si torna a casa.
È probabile che lo shock dell’11 Settembre sia stato decisivo nel mettere fine all’idea della «nazione indispensabile». La prima domanda che si fecero gli americani quel martedì fu: «Perché ci odiano tanto?». La risposta, a lungo andare, doveva per forza essere una tendenza a impegnarsi di meno nel mondo, a rinunciare al ruolo del gigante che si aggira stringendo in una mano una carota e nell’altra un nodoso bastone. La risposta, a lungo andare, è stata: ognuno faccia per sé. E se sorprende la differenza tra la promessa di Biden in campagna elettorale di rilanciare il ruolo internazionale degli Usa, e la realtà del suo effettivo comportamento alla prima occasione, non sorprende invece affatto la direzione di marcia, che in fin dei conti è la stessa dei predecessori: riportare i soldati a casa.
Eppure, per quanto possa sembrare contraddittorio, la fine di una guerra non significa necessariamente l’inizio della pace. In Afghanistan, per esempio, non c’era più la guerra da tempo, e invece dopo il ritiro americano è ripresa, con la conquista talebana e la battaglia del Panshir. Inoltre il vuoto strategico lasciato dagli Usa verrà riempito. Saigon cadde nella primavera del 1975, sancendo la più cocente sconfitta del gigante americano in Asia: quattro anni dopo l’Unione Sovietica si sentì così sicura di sé da invadere l’Afghanistan, mettendo fine alla fase della distensione pacifica tra Est e Ovest. Fu mentre Obama praticava la strategia del «leading from behind», pretesa di guidare il mondo dal sedile di dietro, che Putin intervenne in Ucraina e Siria. E c’è da star sicuri che ora, dopo l’Afghanistan, il nazionalismo cinese si sentirà più forte e audace.
D’altra parte la prova che senza il gendarme americano il mondo non è affatto più sicuro ce l’abbiamo avuta proprio a Kabul in questi giorni: sono stati i talebani a liberare centinaia di militanti dell’Isis-K, il gruppo che ha rivendicato la strage dell’aeroporto, e a nominare primo ministro un terrorista internazionale sulla lista dell’Onu.
Il mondo potrebbe non reggere al test del declino americano. Vent’anni dopo le Torri Gemelle gli Stati Uniti non hanno più voglia di essere la «nazione indispensabile». Ma noi ne abbiamo ancora un gran bisogno.