la Repubblica, 8 settembre 2021
Dall’introduzione a "Fare giustizia" di Giuseppe Pignatone (Laterza)
«La giustizia è una cosa divina, peccato che sia affidata agli uomini». Avevo appena superato il concorso per l’ingresso in magistratura, e mi colpirono queste parole di un mio lontano parente, lo zio Luigi, un vecchio magistrato che aveva visto la guerra mondiale e che era poi stato protagonista di importanti processi contro il banditismo e la mafia delle campagne. Quella frase, espressione di fede popolare e del tipico pessimismo (o realismo) siciliano, mi è tornata in mente molte volte nel corso dei miei quarantacinque anni in magistratura e dei miei sforzi di “fare giustizia”. Nel maggio 2019, compiuti 70 anni, sono stato collocato in quiescenza (come si dice con una orribile espressione burocratica), ma ho continuato a riflettere sui temi della giustizia, aiutato in questo dall’invito a collaborare con importanti quotidiani e dalle frequenti richieste di partecipare a incontri di discussione pubblica. Mi ha aiutato in questa riflessione anche il recente incarico di presidente del Tribunale vaticano, che dopo i decenni trascorsi negli uffici del pubblico ministero, mi consente di conoscere dall’interno la funzione giudicante, oltretutto da un punto di osservazione straordinario per l’applicazione alla realtà attuale di un insieme eterogeneo di norme, alcune recentissime e altre risalenti a più di un secolo fa. Come è logico, dunque, le analisi e le considerazioni esposte in questo libro sono il risultato della mia esperienza, professionale e di vita [...]. La generalità degli osservatori, con rare eccezioni, ritiene che vi sia stata e vi sia tuttora, con particolare riferimento a mafia e corruzione, una sorta di delega ampia alla magistratura da parte della politica, che a sua volta ha preferito rimanere un passo indietro. In questo modo, anche per volontà della politica, che – non si può dimenticare – fa le leggi e stabilisce regole, compiti e risorse, una magistratura forte e indipendente ha conseguito in questi decenni notevoli successi, anche pagando prezzi altissimi, come testimonia il lungo elenco di suoi esponenti uccisi nell’adempimento del dovere. Questa forza, questa indipendenza, quest’ampiezza di compiti e la dotazione di penetranti strumenti di indagine per soddisfarli, ha però finito per alimentare l’opposizione di settori sempre più ampi della società verso la magistratura anche perché essa deve oggi intervenire in materie che vedono in gioco interessi enormi ma che, al contempo, non sono regolamentate in modo chiaro e specifico. Allo stesso modo, ai giudici è richiesta la ricostruzione di fatti e vicende di estrema complessità, spesso lontani nel tempo, ma con notevoli implicazioni e forti richiami a sensibilità attuali, accese, divisive.La magistratura si ritrova così al centro di un continuo scontro politico, la sua azione viene acriticamente esaltata o condannata da opposte “tifoserie” (che comprendono anche parte dell’informazione) e l’operato dei magistrati diventa, con o senza il loro consenso, materia di lotta politica. Il risultato è davanti agli occhi di tutti: l’imparzialità di chi amministra la giustizia viene messa in dubbio, con una marcata insistenza sulla figura del pubblico ministero, ormai estesa anche alla funzione giudicante, la cui credibilità è invece un bene prezioso per la democrazia. È necessario riconoscere, però, che la situazione è aggravata dal comportamento di quei magistrati che più o meno apertamente si schierano con una delle parti in campo, rendendo così più facile il compito a quanti intendono dimostrare l’accusa di parzialità rivolta senza distinguo all’intero apparato giudiziario. La magistratura è stata così chiamata a svolgere compiti non solo importanti, difficili e pericolosi, ma anche molto insidiosi per le liaisons dangereuses di cui corrotti e mafiosi sono maestri. Anche così si spiega l’insorgere di una vera e propria “questione morale”, come ha riconosciuto la stessa Associazione nazionale magistrati a fronte del moltiplicarsi di episodi di corruzione e collusione. Per porre rimedio a questa complessa situazione, caratterizzata dall’intreccio di aspetti largamente positivi con altri di indubbia gravità, sentiamo ripetere da più parti che la chiave di tutto sia “ridimensionare il pm”. Si tratta a mio avviso di una semplicistica parola d’ordine dal forte sapore propagandistico, che però è diventata un obiettivo strategico per molti, a cominciare da una parte della politica e dell’informazione. Alla narrazione secondo cui i pm non applicano o non rispettano le regole e comunque hanno sempre torto (a meno che non indaghino avversari o competitori) nel tempo si sono uniti autorevoli studiosi, che su questo tema sembrano perdere facilmente il loro aplomb scientifico e si è espressa nello stesso senso anche una parte della magistratura, forse ritenendo che sia più facile salvare il nucleo essenziale della giurisdizione – la funzione giudicante – indebolendo quella requirente e attribuendo al giudice nuovi spazi nella fase delle indagini. Senza aver riflettuto a sufficienza sul fatto che ciò porterebbe al pieno coinvolgimento dei giudici nelle polemiche oggi “riservate” ai colleghi delle procure. Sia chiaro, si tratta di posizioni del tutto legittime, perché nessuno può indicare con assoluta certezza il modo migliore per risolvere la crisi della giustizia penale. Eppure continua a stupirmi il fatto che, in questo dibattito, nessuno ponga due domande che a me sembrano invece di cruciale importanza. La prima: un pm e una magistratura così ridimensionati e ristrutturati sarebbero in grado di ottenere gli stessi risultati, giudicati positivi in tutte le sedi istituzionali, contro forme di criminalità, in particolare quella mafiosa e quella dei colletti bianchi, sempre più potenti e aggressive? Non dimentichiamo che la nascita delle Direzioni distrettuali antimafia e della Procura nazionale antimafia è il frutto dell’intuizione di Giovanni Falcone sulla necessità di uffici del pubblico ministero forti, credibili e con una guida autorevole. La seconda domanda è questa: in un sistema politico-istituzionale diviso e conflittuale qual è il nostro, è saggio indebolire la magistratura requirente, interfaccia naturale e necessaria delle forze di polizia che dipendono dal potere esecutivo, cioè dal Governo in carica? Non sto, ovviamente, mettendo in dubbio la lunga tradizione di affidabilità democratica dell’apparato investigativo, che ha avuto e ha al vertice uomini di assoluta lealtà istituzionale, oltre che di grandissima capacità professionale. Si tratta però di una questione relativa a equilibri istituzionali delicatissimi, collaudati nell’arco di molti anni e la cui minima modifica richiede la più attenta considerazione. Credo sia peraltro innegabile che proprio l’esistenza di uffici di procura solidi e responsabili abbia favorito l’attività delle nostre forze di polizia in indagini delicate e difficili: attività sui rapporti tra mafie e politica, sui reati di corruzione commessi da soggetti di rilievo pubblico, ma anche filoni che hanno coinvolto uomini degli stessi apparati di sicurezza e investigativi, com’è accaduto nel caso del rapimento di Abu Omar o in quello della morte di Stefano Cucchi. Mentre, al contrario, le cronache di questi anni hanno offerto esempi chiari dei gravi problemi che si possono creare, anche sul piano istituzionale, quando l’interfaccia costituita dalle procure è assente, debole, poco efficace o viene scavalcata. Come accade, per esempio, quando un sostituto ceglie di agire in totale isolamento rispetto all’ufficio ed è, quindi, allo stesso tempo meno autorevole e, pur se in perfetta buona fede, più soggetto a errori e condizionamenti. Sono domande, ribadisco, che dovrebbero trovare spazio e risposte in un dibattito pubblico su un tema fondamentale per la tenuta democratica del Paese