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 2021  settembre 08 Mercoledì calendario

Intervista a Charles Michel (che accusa gli Usa)

La crisi in Afghanistan sta generando un dibattito su scala continentale. Secondo lei, Charles Michel, presidente del Consiglio europeo, l’esito di questo dibattito avvalora la posizione assunta dal presidente francese Macron dopo le dichiarazioni su un’Alleanza Atlantica «in stato di morte cerebrale»?
«Dobbiamo essere lucidi. Da vent’anni siamo impegnati a livello militare e politico, ma anche civile, umanitario e di sviluppo. Ho avuto l’opportunità di conoscere questo periodo nelle mie varie funzioni, prima come ministro federale della cooperazione allo sviluppo, poi come primo ministro del Belgio. Gli eventi degli ultimi giorni dipingono un quadro tragico. Dobbiamo riconoscere che, nonostante gli sforzi, questo è un fallimento per la comunità internazionale. La maggior parte dei Paesi europei attivi in Afghanistan, sia all’interno della Nato sia in missioni di sviluppo, hanno deciso di essere solidali con gli Stati Uniti in base all’articolo 5 del Trattato del Nord Atlantico, utilizzato per l’unica volta nella storia in questa occasione. Facendo un passo indietro, ciò che mi colpisce è che, quando gli Stati Uniti hanno scelto di negoziare con i taleban sotto l’amministrazione Trump e poi hanno confermato il loro ritiro, l’hanno fatto consultandosi pochissimo – se non per niente – con i partner europei».
L’Unione europea riuscirà a trarne delle lezioni?
«Dovremmo sentirci incoraggiati come europei a prendere in conto una serie di lezioni. La crisi afghana non fa che rafforzare una convinzione che ho da tempo e che condivido con molti altri, l’idea dell’autonomia strategica dell’Ue, che mira a rafforzare la nostra capacità di influenza secondo i nostri interessi e valori, insistendo anche sulla nostra capacità d’azione.
Di fronte all’impressione di un’accelerazione del caos al momento del ritiro Usa, non si può non porsi delle domande. Il fatto che una delle potenze economiche più forti del mondo come l’Unione europea, una potenza democratica con valori forti, una potenza militare composta da ventisette Stati, non sia in grado di fornire l’assistenza necessaria per evacuare i suoi cittadini e gli afghani che l’hanno sostenuta senza il sostegno degli Stati Uniti, deve essere fonte di preoccupazione. Questa osservazione non fa che accelerare l’urgenza di una discussione approfondita sul rafforzamento dell’autonomia strategica europea. Ora dobbiamo trasformarla in azione.
Voglio dirlo chiaramente: l’autonomia strategica Ue rafforzata è una buona idea per l’Europa, ma anche per il resto del mondo, perché i valori che sosteniamo sono valori universali di dignità e rispetto dell’individuo. Proponiamo un ordine basato su regole. È anche un bene per gli alleati: è meglio per tutti essere in un’alleanza dove tutti i partner sono solidi e hanno la capacità di agire».
Ritiene che l’amministrazione Biden si sia comportata come un’alleata dell’Unione europea nella crisi afghana?
«Gli Stati Uniti sono un grande alleato dell’Ue, su questo non c’è dubbio. La nostra storia, i nostri valori, la nostra concezione della democrazia liberale ci legano, mentre le democrazie liberali sono sotto pressione e affrontano nuove forme di minacce che minano la loro forza. Tuttavia, è certo che nell’arena geopolitica ultimamente ci sono state divergenze di opinione sugli interessi, o su come raggiungere gli obiettivi. Questo non è solo limitato all’Afghanistan, ma riguarda anche altre questioni internazionali, in particolare Siria e Iran».
In questo senso, vede delle continuità tra l’amministrazione Trump e l’amministrazione Biden?
«Sono piuttosto convinto che l’amministrazione Biden sia a favore dell’integrazione europea. Ne sono abbastanza convinto perché ne ho parlato con il presidente americano all’ultimo G7 e al vertice bilaterale Ue-Usa. L’ho trovato impegnato e sincero. Il suo curriculum politico lo attesta. Questa è la differenza con l’amministrazione Trump, che aveva una visione binaria e semplicistica del mondo: “Io sono forte, tu sei debole. E se tu sei forte, io sono debole”. Ora stiamo assistendo al ripristino di un dialogo più normale e fruttuoso che ci ha permesso, in pochi mesi, di sviluppare convergenze su temi importanti per i nostri interessi comuni. Sul fronte del clima, sono stati fatti progressi con il rientro degli Stati Uniti nell’accordo di Parigi. Possiamo vedere che, su un certo numero di questioni geopolitiche, è stato ripristinato un dialogo intenso, che praticamente non esisteva più con Trump.
Detto questo, mi sembra che ci sia una tendenza strutturale negli Stati Uniti, che esisteva già prima di Donald Trump – anche se lui l’ha resa più visibile – a dare priorità agli interessi americani. Dobbiamo essere chiari su questa realtà, che è legittima. Posso capire gli argomenti interni che hanno portato il presidente Biden a confermare il ritiro. Posso capire questa decisione sovrana e legittima presa dagli Stati Uniti. Come europei, abbiamo dei valori, e sono forti. Abbiamo anche cittadini da proteggere e interessi da difendere. L’Afghanistan dovrebbe indurci a guardarci allo specchio e a chiederci: “Come possiamo avere in futuro più influenza in termini geopolitici, e come possiamo agire per influenzare il corso degli eventi in una direzione compatibile con i nostri interessi?"».
Definire i propri interessi significa prendere posizione nella rivalità sistemica tra Stati Uniti e Cina?
«No, significa non essere tenuti in ostaggio da questa rivalità. Non c’è dubbio che condividiamo con gli Stati Uniti gli stessi valori democratici e lo stesso tipo di modello politico. Allo stesso tempo, noi europei dobbiamo sviluppare la nostra strategia nei confronti della Cina, che è una potenza mondiale. A questo proposito, negli ultimi mesi, abbiamo cercato di identificare, nel quadro del Consiglio europeo, le nostre modalità di interazione con Pechino».
Quali sono?
«Possono essere riassunte in tre punti. In primo luogo, il desiderio di essere molto fermi sui nostri principi fondamentali, come i diritti umani. In secondo luogo, abbiamo la libertà di scambiare opinioni su questioni globali multilaterali dove riteniamo che il dialogo sia necessario. Questo è il caso del Covid, anche se è un dialogo difficile perché c’è bisogno di trasparenza e non siamo ancora convinti che la Cina sia completamente trasparente sull’origine del virus. Infine, il riequilibrio delle relazioni in termini di commercio e, più in generale, in termini economici. Questo era del resto il senso del progetto di accordo sugli investimenti che era, a mio parere, un primo passo per riequilibrare l’accesso ai rispettivi mercati. —