Corriere della Sera, 8 settembre 2021
Intervista a Oscar Farinetti
Farinetti, 66 anni non sono pochi per scrivere un’autobiografia da 585 pagine?
«Non l’ho scritta io, ma la scimmietta che da sempre mi porto sulla spalla».
Negli ambienti editoriali si mormora che gliel’abbia scritta Baricco, o qualcun altro degli scrittori amici suoi.
«Ho sentito anch’io questa storia. Ne sarei felice: Alessandro è la persona più intelligente che abbia mai conosciuto. Ma le assicuro che l’unica responsabile è la scimmietta».
La prenderanno in giro.
«Ognuno di noi è due persone. Essere uno solo sarebbe noioso. Oscar ad esempio è sereno, un po’ pigro, preferisce leggere piuttosto che scrivere. Ma la scimmietta che si porta sulla spalla è inquieta, non è mai contenta, mai stanca. E preferisce scrivere che leggere».
Lei nel libro si apre molto. Racconta pure la sua prima polluzione.
«Avevo dodici anni. Stavo correndo per andare a servire messa da chierichetto per don Valentino, ero in affanno, agitato, e a un certo punto mi sono sentito bagnare i pantaloni. Ci ero arrivato vicino già qualche giorno prima, quando dovevo consegnare un compito in classe ed ero in ritardo. Quel giorno ho capito che l’inquietudine per me era piacere».
A don Valentino lei disse che non credeva più in Dio.
«Era arrivato il Sessantotto e non ero più tanto sicuro che Dio esistesse. Lui mi rispose: “Esiste, esiste. Ma, nel dubbio, tu continua a comportarti bene”. Don Valentino la pensava come Pascal».
Lei sta da tutta la vita con la stessa donna.
«Senza di lei non avrei fatto niente. Graziella aveva 19 anni e vendeva latte alla fiera del Tartufo di Alba. Passai davanti al suo stand cantando “Bevete più latte, il latte fa bene…”. Ci sposammo quasi subito. Prima notte di nozze in tenda, sotto il Monte Rosa».
Romantico.
«Mica tanto. Nel mio egotismo, anziché “ti amo”, le dicevo: sei contenta che mi piaci? Poi la portai a Venezia, in una pensione a una stella».
Qual è il suo primo ricordo?
«Mio papà al lavoro da mattina a sera nel pastificio di famiglia, in pieno centro ad Alba, dove ora c’è una libreria. Impazziva per fare i tajarin arricciati a nido: li inventò lui, e li chiamò langaroli. Allora non sapevo che quell’uomo infarinato dalla testa ai piedi era un eroe».
Un eroe?
«Ogni volta che camminavo con lui per strada, qualcuno lo fermava per ringraziarlo. Erano i parenti dei condannati a morte che aveva liberato, durante la Resistenza».
Come andò?
«Una scena da film. Papà si era vestito da contadinaccio ed era arrivato davanti al carcere con un pacco troppo grande per passare dalla porta. Con quello stratagemma si fece aprire, poi puntò la rivoltella alla tempia del secondino, fece entrare due compagni, a mitra spianato liberarono diciassette prigionieri; poi fuggirono a piedi evitando i colpi dei fascisti che sparavano dalle finestre…».
Lei in realtà si chiama Natale.
«Sì, come il nonno. Ma mio padre volle che fossi Oscar, come un suo uomo caduto in combattimento».
Si mormora anche del tesoro della Quarta Armata, diviso tra la Curia di Alba e i capi dei partigiani rossi, tra cui suo padre…
«In casa ne ridevamo: dove avremo nascosto questo tesoro, visto che siamo pieni di debiti? Quando aprimmo il primo negozio di elettrodomestici, che papà volle chiamare Unieuro perché sognava l’Europa unita, i tassi passarono dal 6 al 24%. Amavo il week-end; perché dal lunedì mattina al venerdì sera le banche ci telefonavano per chiederci di rientrare».
Poi lei ha puntato su Eataly. L’orgoglio italiano.
«Non mi piacciono quelli che si proclamano orgogliosi di essere italiani. Mica hanno fatto loro il Colosseo. Io sono riconoscente di essere italiano».
Perché ha aperto a Torino?
«Perché da Torino è iniziato tutto. L’unità d’Italia, l’automobile, il partito liberale, il partito comunista, la penna a sfera Bic, i pelati Cirio, la televisione. Pensano che la moda sia nata a Milano, le cooperative a Bologna, il cinema a Roma. Non è vero, sono tre primati torinesi».
Poi a Tokyo. E ha fallito.
«Bagno di sangue. I giapponesi mangiano italiano una volta al mese e ordinano uno spaghetto in due».
L’ha salvata l’America.
«Con Joe Bastianich andiamo a trattare l’affitto del palazzo più strategico di New York, all’incrocio tra la Quinta e Broadway. La mia scimmietta mi suggerisce di offrire due milioni e mezzo di dollari. Joe mi dice: sei matto, il proprietario chiede più del doppio. Ma la scimmietta aveva intuito che era disperato: nel febbraio 2019 la crisi era nera. Infatti cedette. Il giorno dell’inaugurazione c’era una coda di tre isolati. Venne Bloomberg, che allora era sindaco, ma chiuse la cerimonia prima che potesse parlare il mio amico Carlin Petrini, venuto apposta da Bra. Ci rimasi male più io di lui».
Lei scrive che deve molto al Sud: «Se anziché pizza e pasta avessi venduto solo polenta, non avrei avuto tanto successo». Ma l’unico Eataly che ha aperto al Sud, quello di Bari, ha chiuso.
«Perché davanti vendevano il caffè a 60 centesimi e il panino con la birretta a due euro; al confronto i nostri prezzi apparivano esagerati».
È per questo che non investe al Sud?
«Io ho investito al Sud! Ho appena comprato un’azienda vinicola sull’Etna. Il Mezzogiorno è meraviglioso, e ce la farà. Ma non ne posso più di sentirmi dire che la colpa dei loro guai è tutta dei piemontesi. Con le colpe degli altri non si va da nessuna parte. In Sicilia ci sono più di 1.600 chilometri di costa, tra le più belle del mondo. Quella, Garibaldi non l’ha portata via. In Romagna la costa è lunga meno di cento chilometri e non è la più bella del mondo. Ebbene, in Sicilia ci sono cinque milioni di turisti, in Romagna venti. È colpa dei romagnoli?».
Mancano le infrastrutture.
«Che infrastrutture hanno più di noi in Thailandia? Eppure hanno più turisti che in Italia. E l’86% del turismo internazionale si concentra da Roma in su. A proposito: l’altro giorno ho incontrato Virginia Raggi. È una donna molto intelligente».
Nel libro si racconta l’incontro con Matteo Renzi.
«Ottobre 2009. Era appena diventato sindaco di Firenze, se la menava un po’ da Magnifico. Me lo trovai di fronte a Torino. Lo portai in giro per Eataly. Era veloce, anzi velocissimo. Capiva al volo le dinamiche di un’azienda. Divorò un piatto di carne cruda da gran goloso. Lo confesso: me ne innamorai».
Dicono che ora sia un uomo d’affari.
«A me non ha mai chiesto un euro. E quando venne a Expo da presidente del Consiglio a mangiare la carne cruda, pretese di pagare. Detto questo, forse ha sbagliato a personalizzare il referendum».
È vero che le chiese di fare il ministro?
«Entrato a Palazzo Chigi, mi spiegò che aveva bisogno degli amici per governare il Paese. Ma io faccio politica con il mio mestiere di imprenditore italiano nel mondo».
Dopo la vittoria del No, lei disse al Corriere che Renzi doveva sparire.
«Sarebbe stato richiamato e portato in trionfo. Invece ha continuato a sbagliare: da ultimo creando il suo partitino, anziché restare nel Pd. Ma è stato uno dei migliori premier che l’Italia abbia avuto. Non rinnego l’amicizia. Anche se, quando mangiamo insieme un piatto di carne cruda, non riusciamo più a sentire il meraviglioso sapore di quel giorno d’ottobre del 2009».
Come è stata la botta del Covid?
«Durissima. Meno 60% in America, che è il posto dove guadagniamo di più; anche se la sede è ad Alba, e io sono un contribuente italiano».
Angelo Gaja, il genio del vino, disse che per la prima volta in vita sua aveva trovato Farinetti di cattivo umore.
«Ero avvilito perché avevo appena lasciato ai figli: Francesco capo di Green Pea, il primo retail “verde”; Nicola di Eataly; Andrea delle nostre 19 aziende agricole. Soffrivo nel vederli in difficoltà. Ma ne stiamo uscendo. In piena pandemia abbiamo aperto Dallas, Londra, il secondo Eataly di Seul. Quindici giorni fa abbiamo riaperto Tokyo. Stiamo cercando un socio in Cina. E abbiamo trovato il modo di esportare la razza piemontese in America».
Esportare carne europea in America è vietato.
«Sì. Ma esportare lo sperma è consentito. Così abbiamo aperto un allevamento di vitelli piemontesi nel Montana. Ho un solo cruccio».
Quale?
«Non si trovano dipendenti. Ora vorrei assumere i profughi afghani. Trovare italiani è durissima».
Basterebbe pagarli meglio.
«Sono d’accordo. Salario minimo a 1.500 euro netti».
Lei non paga tutti i suoi dipendenti 1.500 euro netti.
«Perché lo Stato tassa troppo il lavoro. Dovremmo mantenere un sussidio per i veri poveri, e con gli altri soldi del reddito di cittadinanza abbattere il cuneo fiscale».
Vede che lei vorrebbe fare politica?
«Una volta ho riunito soci e familiari e per scherzo ho annunciato di voler fondare un partito: INV, Io Non Voto. Partiamo dal 30%. Prima mossa: anziché stare sempre in campagna elettorale, si vota una volta sola, ogni cinque anni, per nazione, regione, comune. Doppio turno, come per i sindaci. Chi vince governa; mica si può sempre delegare ai tecnici. E l’INV cambierà nome in Italia Nuova e Verde».